La differenza tra Lenin e Stalin è che Lenin perdonava i nemici, Stalin ammazzava gli amici. Josif Stalin muore al Cremlino il 5 marzo 1953, settant’anni fa. Il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi detta una pacata riflessione all’«Ansa»: «In vita il dittatore non mostrò per il nostro Paese comprensione né considerazione. In mezzo a tante parole di esaltazione o di condanna, questo trapasso deve ammonirci sui limiti della persona umana e sui confini del suo destino. Con questa riflessione noi chiniamo la fronte, pensosi, innanzi alla scomparsa di un uomo che lascia nel mondo un grande vuoto che vorremmo si riempisse di comprensione, fraternità e pace».
La Santa Sede non fa dichiarazioni. «L’Osservatore Romano» aggiunge che Stalin ha scatenato una violenta persecuzione contro la Chiesa e i cristiani: «I cattolici furono dispersi; furono distrutte fiorenti comunità di rito orientale. Cominciò il dolente calvario dei fratelli baltici: lituani, lettoni, estoni. Infuriò e infuria la tempesta sui cattolici romeni, bulgari, albanesi, ungheresi, cecoslovacchi, polacchi e dell’Oriente asiatico. Alcuni negano la Chiesa del silenzio, della dispersione degli esuli, delle prigioni e del martirio, che nulla spiega e giustifica, se non un fiero odio».
Di prima classe il cordoglio dei comunisti e dei socialisti. Al Teatro Valle di Roma una scritta illustra un grande ritratto del dittatore: «Stalin è morto ma la sua opera e il suo pensiero sono immortali». Alla tribuna la direzione del Pci, salvo Palmiro Togliatti volato a Mosca insieme a Pietro Nenni. Alla Camera Togliatti aveva parlato di «anima oppressa dall’angoscia perché si era chiusa la vita prodigiosa di Stalin». Nenni era stato molto più caloroso: «Nessuno fra i reggitori di popoli ha lasciato dietro, morendo, il vuoto che lascia Stalin. Quando nell’estate scorsa ebbi occasione di incontrarlo egli mi disse parole che racchiudono la lezione della sua vita: non ammettere mai che non ci sia più niente da fare; non rompere mai il contatto con l’avversario o con il nemico; non puntare mai su una carta dubbia le sorti dello Stato, del partito, della collettività». Il socialista Rodolfo Morandi si sbilancia: «Mai l’umanità è stata percorsa da così profonde vibrazioni per la scomparsa di un Uomo dalla scena umana».
Al Senato per i comunisti parla Mauro Scoccimarro «pieno di stupore e di amarezza» perché «è scomparso un gigante del pensiero e dell’azione, una di quelle figure che nella storia dell’umanità hanno impresso una impronta potente che nessuno potrà mai più cancellare». Indugia su particolari patetici: la nascita in una misera capanna di contadini; il padre calzolaio e poi operaio di fabbrica; la madre figlia di servi della gleba nella Russia feudale e zarista; la frequenza del seminario ortodosso di Tiflis, da dove è cacciato «perché fa propaganda socialista».
Per i socialisti il senatore Sandro Pertini, futuro presidente della Repubblica, è ampolloso: «Il dolore e l’angoscia che sono in noi impediscono ogni frase retorica e ogni accento polemico. Dinanzi a questa morte non si può rimanere che stupiti e costernati. Stupiti, per la grandezza che questa figura assume nella morte, che la pone nella sua giusta luce; sicché uomini di ogni credo politico, amici e avversari, debbono riconoscere l’immensa statura di Stalin. Egli è un gigante della storia e la sua memoria non conoscerà tramonto. Siamo costernati per il vuoto che lascia nel suo popolo e nell’umanità intera. Dovete riconoscere che la vita di quest’uomo coincide per trent’anni con il corso dell’umanità». Più realista il segretario della Democrazia cristiana, Guido Gonella: «Non si può imporre il culto di Stalin agli italiani, in quanto la sua figura è destinata al triste Pantheon dei dittatori che hanno oppresso i popoli». Netto anche il socialdemocratico Giuseppe Saragat: «Non possiamo che esprimere un giudizio negativo; non possiamo dimenticare che, nonostante ci sia presentato come paladino della pace, fu la sua decisione nel 1939 a determinare la scintilla che portò alla Seconda guerra mondiale».
Anche i politici prendono colossali cantonate. La storia lo presenta come dittatore sanguinario: negli anni Trenta scatena purghe e repressione in Urss, il «Grande terrore» contro comunisti e cittadini non comunista, considerati ostili al regime. Arrestati e condannati esponenti stranieri – italiani compresi – emigrati nella patria del socialismo per sottrarsi alle persecuzioni dei loro Paesi e per contribuire al suo sviluppo. Il 25 febbraio 1956, tre anni dopo la morte di Stalin, nel XX congresso del Partito comunista dell’Unione sovietica la relazione del segretario Nikita Sergeevič Chruščëv denuncia i crimini del predecessore: «Voleva diventare un superuomo dotato di caratteristiche sovrannaturali, simili a quelle di un dio; aveva abbandonato i metodi della lotta ideologica per sostituirli con quelli della violenza».
La notizia fa il giro del mondo. I giornali occidentali e americani enfatizzano mentre Oltrecortina ci si interroga sul significato e sulla possibilità di una svolta politica. I primi a crederci sono gli ungheresi che pagano con il sangue la speranza del cambiamento: la loro rivolta è schiacciata dai carri armati sovietici nell’ottobre 1956. In Italia nel Partito Comunista l’imbarazzo è enorme. Togliatti è l’unico della delegazione comunista al congresso di Mosca a leggere il rapporto: tornato a Roma, rifiuta di parlarne ai compagni. Rossana Rossanda – che passerà poi al Manifesto – scrive che «i dirigenti comunisti non possono non sapere». Wikipedia racconta di «sinceri comunisti delle sezioni periferiche, con le lacrime agli occhi, che strappano dai muri delle sezioni di partito i manifesti de ”l’Unità” sulla morte di Stalin, con la grande foto del dittatore: “Gloria eterna all’uomo che più di tutti ha fatto per la liberazione e per il progresso dell’umanità”». Krusciov non persegue alcun cambiamento nel comunismo sovietico, sarà sopraffatto dal partito e finirà i suoi giorni su di panchina da pensionato. Resta il fatto che quello di Stalin è uno dei più grandi crimini contro l’umanità in nome della libertà e del progresso.
Pier Giuseppe Accornero