Non passa giorno che i media diano ampio risalto alle attività svolte dalle start up. Un termine divenuto di uso quasi comune; un fenomeno nel quale sono riposte speranze di ripresa dell’economia e dell’occupazione nella nostra area. Siamo di fronte sicuramente ad un fenomeno importante ma quasi del tutto nuovo e come tale ha bisogno di alcune puntualizzazioni per poterne valutare correttamente la portata.
Le start up (neo imprese) di cui si parla non rientrano nelle migliaia di imprese che nascono ogni anno nella nostra regione. Quelle che suscitano particolare attenzione sono le start up «innovative»: una particolare categoria di imprese prevista all’articolo 25 comma 2 del Decreto legge n.179/2022 di cui fanno parte «le società di capitali che ha come oggetto sociale esclusivo o prevalente lo sviluppo, la produzione e la commercializzazione di prodotti e servizi innovativi ad alto valore aggiunto».
Le imprese che soddisfano questi requisiti sono iscritte alla «Sezione speciale del registro delle Imprese» e godono di particolari sostegni da parte del ministero per lo Sviluppo economico (Mise) e delle Regioni. Fatta questa precisazione che mi sembra doverosa cerchiamo di conoscere meglio questa particolare realtà fatta di imprese il cui business esclusivo dovrebbe essere l’innovazione.
Trattandosi di un fenomeno nuovo, il numero delle start up innovative è forzatamente contenuto. In Italia, alla fine del 2017, erano, secondo i dati forniti dal Mise, 8.392, lo 0,51% delle oltre 1,6 milioni di società di capitali registrate nel nostro Paese. In Piemonte erano 441, il 5,5% del totale nazionale e lo 0,60% del totale delle società di capitale che operano in regione.
La Lombardia è la regione più «virtuosa» con 1.959 start up innovative pari al 23,3% del totale nazionale. Seguono l’Emilia Romagna con 862, il Lazio con 825, il Veneto con 758 e la Campania con 623 imprese. Quasi due terzi delle start up piemontesi è concentrato in provincia di Torino. Nella graduatoria delle province più virtuose Torino con 318 start up figura al 3° posto preceduta da Roma (716) e Milano (1370).
Le start up innovative piemontesi risultano concentrate in 3 settori: il 63% fornisce servizi alle imprese. In particolare prevalgono la fornitura di servizi di informazione e comunicazione e le attività di R&S (ricerca e sviluppo); il 22% opera nell’industria manifatturiera; il 5% nel commercio; un altro 5% nel settore del turismo e dello sport. La distribuzione per settori delle start up piemontesi coincide in larga parte con quella delle 8.300 imprese italiane.
Trattandosi di una realtà nuova si è portati ad ipotizzare un’ampia prevalenza di giovani all’interno delle start up innovative, con ruoli diversi o più semplicemente dipendenti. Vediamo se è vero.
In Piemonte le start up a prevalenza giovanile (con under 35 soci o amministratori) sono un centinaio, poco più di un quarto del totale (26,9%). Tra le 8.300 start up italiane la quota è di poco superiore al 20%. Alla fine dello scorso anno i dipendenti superavano di poco le 600 unità; alla stessa data in Italia le persone occupate erano 10.800. Una percentuale del tutto insignificante dei 9 milioni di persone occupate nelle società di capitale che operano in Italia.
Una recente indagine svolta dal ministero dello Sviluppo economico su un campione significativo di 2.250 imprese innovative fornisce ulteriori informazioni utili a capire meglio la portata di questo fenomeno, a cominciare da quelle che riguardano le caratteristiche del «capitale umano» impiegato in azienda:
L’82% dei soci operativi è di genere maschile; l’età media è di 43 anni. Il 78% ha conseguito un titolo di studio pari o superiore alla laurea triennale; nel 78% dei casi per lo più in materie tecnico-ingegneristiche ed economiche manageriali.
L’88% dei soci laureati dichiara di svolgere mansioni coerenti con il proprio percorso di studio. La quasi totalità dei soci dichiara di conoscere almeno un’altra lingua; la metà ha fatto esperienze di studio o lavoro in altri Paesi.
Il radicamento territoriale dei soci appare molto elevato: per l’83% la regione sede della start up è la medesima nella quale sono state condotte le principali esperienze lavorative o formative.
Circa la metà dei dipendenti ha un’età compresa tra i 25 e i 34 anni. Poco meno di un terzo è soggetto a forme di lavoro atipiche; il titolo di studio più diffuso tra i dipendenti è il diploma di scuola superiore; l’area professionale quella tecnologica-ingegneristica.
Al momento della fondazione il 73,2% delle imprese ha fatto ricorso alle risorse proprie dei soci fondatori; solo l’8% ha ricevuto finanziamenti da società di venture capital, business angel.
Il tasso di sopravvivenza di queste imprese è elevato: ad oggi soltanto il 6% di quelle costituite nel 2014 e il 10% di quelle iscritte prime del 2013 hanno cessato la propria attività.
L’insieme delle informazioni raccolte sembra aver soddisfatto l’esigenza che avevamo di conoscere meglio il fenomeno delle start up innovative, anche se non disponiamo di molti dati riferiti alla realtà locale.
Il quadro che emerge ci fa apprezzare alcune peculiarità del fenomeno e nello stesso tempo induce a sfatare alcuni luoghi comuni, frutto spesso di semplificazioni. Le start up innovative sono un segnale di vitalità del sistema economico; svolgono inoltre un ruolo importante di esploratori delle nuove applicazioni tecnologiche potendo contare su una forza lavoro mediamente più qualificata di quella che opera nelle altre imprese. L’alto tasso di sopravvivenza è un riscontro importante della capacità di stare sul mercato con effetti sul reddito che però possono variare ampiamente da impresa a impresa.
Si tratta in ogni caso di un fenomeno molto circoscritto; non è su questo insieme di imprese che si può contare per rilanciare il sistema economico. Ciò è vero anche per una regione come la nostra che, tra l’altro, non brilla particolarmente come «fucina» di start up innovative, nonostante la presenza di due qualificati Incubatori promossi dall’Università e dal Politecnico di Torino. Chi sperava che le start up potessero rappresentare per loro natura uno sbocco quasi «naturale» per tanti giovani qualificati è andato deluso. Per diventare un vero motore dello sviluppo queste imprese devono quantomeno rompere il forte radicamento territoriale, sviluppare le relazioni internazionali e con altre imprese che esistono da maggior tempo.