«Più si faceva giorno, più vedevamo morti. Sono tre giorni che non mangio, non dormo. Ho visto un bambino, aveva 2-3 anni, mi sono infilato in acqua vestito. Ho detto ‘Io questo lo salvo’, ma quando sono uscito aveva la schiuma che gli usciva dalla bocca e allora gli ho chiuso gli occhi. È quella la rabbia mia, non sono riuscito a salvarne neanche uno. Magari se arrivavo un minuto prima (…) Ho un senso di colpa» (Vincenzo Luciano, pescatore di Cutro). Salvare vite, quanto prima possibile, cogente nel diritto del mare.
Di fronte all’ennesima tragedia sulle coste di Crotone è ripartita invece la litania delle dichiarazioni altisonanti, dei commenti di circostanza, dello scarico di responsabilità, delle speculazioni politiche, di parole ignobili e inaccettabili. Personalmente ho provato vergogna, perché non sopporto più il «dolore gridato», mi sa troppo del vecchio trucco di piangere e recriminare senza poi fare niente.
Una emigrazione legale è possibile, oltreché urgentemente necessaria. E lo dimostra la stima di questi giorni della necessità di 500.000 lavoratori stranieri per importanti settori del nostro Paese, dal turismo alle costruzioni, dal lavoro stagionale in agricoltura al lavoro di cura.
E così è possibile gestire i crescenti flussi di profughi che scappano da guerre, disastri e persecuzioni. Come abbiamo fatto con i milioni di ucraini che hanno attraversato le frontiere orientali in poche settimane e non sono stati rinchiusi in campi di confinamento, ma accolti in tutta Europa. Certo grazie alla straordinaria generosità di tantissimi, ma anche alla immediata attivazione della clausola di protezione temporanea, mai applicata prima, delle esistenti norme europee. Ed è anche urgente, perché con i cambiamenti climatici ci saranno almeno 200 milioni di profughi nei prossimi anni.
Già trent’anni fa, il Cese (Comitato economico e sociale europeo) formulò un preciso piano, redatto da una sindacalista italiana, per la gestione delle migrazioni. Un piano che metteva insieme le esigenze di tutti, da chi emigra alle legittime attese dei paesi di origine, transito e destinazione. Nel settembre 2015, sull’onda della tragedia di Lampedusa del 2013 e poi della successiva crisi migratoria, il Parlamento europeo adottò una importante risoluzione comune (tra i firmatari anche l’attuale Presidente Roberta Metsola) che delineava una vera riforma del Regolamento di Dublino e un sostanzioso piano per la gestione legale delle migrazioni.
Ma il profondo disaccordo tra gli Stati membri ha continuato a rinviare soluzioni complessive, preferito focalizzarsi sulla protezione militarizzata delle frontiere esterne, sui respingimenti, sulle difficoltà imposte a chi si occupa di ricerca e salvataggio, sui rimpatri (mai funzionato, se non per cifre risibili), sulle condizionalità ai paesi di partenza e di transito. Un approccio che non funziona: la Turchia, che ha ricevuto dall’Ue oltre 6 miliardi di euro in questi anni per non farli partire, è stata il punto di partenza del barcone che è naufragato a pochi metri dalla costa calabra.
Anche l’ultimo Vertice europeo dei Capi di Stato e di governo, lo scorso 9 febbraio, ha ulteriormente privilegiato il rafforzamento dell’ottica securitaria, con un numero consistente di Stati membri che richiedono il finanziamento di muri e sistemi di respingimento alle frontiere terrestri dell’Ue. In mare si sa, i muri non sono possibili e dunque, sperando che i paesi di transito li fermino alla partenza, con i fondi europei, ci si arrende alla prospettiva certa di nuovi naufragi.
Sul tavolo dei governi langue dal 2020 la proposta della Commissione di un Patto per le migrazioni e l’asilo. Avrebbe voluto un accordo la presidenza tedesca, con la leadership di Angela Merkel. Non se ne fece nulla. Due anni e mezzo dopo, l’attuale presidenza svedese cerca di far avanzare un accordo finale sotto presidenza spagnola. La tabella di marcia concordata tra i co-legislatori (Parlamento e Consiglio) e su cui la presidente von der Leyen insiste, comprende ben nove diverse proposte legislative da finalizzare prima delle elezioni europee del 2024, che toccano tutte le materie, compresa la riforma del Regolamento di Dublino. Per l’Eurocamera sono prioritari l’avanzamento su accoglienza, reinsediamento e qualifiche, mentre per il Consiglio più concessioni su impronte digitali, screening, movimenti secondari e rimpatri.
Il giusto richiamo del Quirinale, dovrebbe allora vedere uno sforzo straordinario del nostro Governo, assieme ai governi dei paesi europei mediterranei, per conquistare il consenso dei paesi più riottosi e convenire finalmente su soluzioni comuni.
Bisogna mettere fine a questa delirante ottica del «problema migratorio» e ragionare tutti insieme sulle «opportunità» di governare con civiltà questo fenomeno storico, inevitabilmente crescente, anche perché il vero pull factor è l’invecchiamento delle società europee e le crescenti necessità di manodopera. E ricordando che se l’Europa perde la propria «anima» di compassione ragionata, che ha invece dimostrato con l’Ucraina, perde sé stessa.
Luca JAHIER, già presidente Cese