Allarme, a Torino minori e giovani sempre più poveri

Teatro Grande Valdocco – Il convegno il 10 marzo ha puntato i riflettori sulla povertà minorile e giovanile che in Italia ha superato di gran lunga quella degli anziani. Il videomessaggio dell’Arcivescovo Nosiglia. GALLERY

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La povertà minorile e giovanile in Italia ha superato di gran lunga quella degli anziani. Il 30% dei giovani nel nostro paese sono neet, «parcheggiati» nell’anonimato, spesso mantenuti da genitori o nonni anziani, fuori dai circuiti della formazione e del lavoro. A Torino la disoccupazione giovanile sfiora il 40% e aumenta il disagio adolescenziale con la diffusione di droga, alcool, devianza, gioco d’azzardo. Sono dati allarmanti quelli posti al centro della Giornata Caritas che si è tenuta sabato 10 marzo al teatro Grande di Valdocco gremito in ogni posto da operatori della carità e rappresentanti di associazioni impegnate nel sociale.

La Giornata Caritas 2018 al Teatro Grande di Valdocco (foto Pellegrini)

«Sete di giustizia, fame di opportunità» il tema del convegno da cui è emerso l’appello a mettere al centro l’accompagnamento delle nuove generazione che la crisi economica ed educativa rischia di lasciare ai margini.

La giornata ha puntato i riflettori sui giovani, come invita la Chiesa universale nel cammino verso il Sinodo dei Vescovi del prossimo ottobre: in particolare si è posto l’accento sulle nuove povertà giovanili evidenziate dal rapporto di Caritas Italiana «Futuro anteriore»: in Italia vivono in condizioni di povertà assoluta 2 milioni e 309 mila bambini e giovani (0-34 anni), sia italiani che stranieri.

Ad aprire i lavori il ricordo di Lia Varesio a dieci anni dalla morte. Dalla testimonianza della fondatrice dell’associazione Bartolomeo & C., che dal 1979 sostiene i senza fissa dimora torinesi, il richiamo alla responsabilità per non rimanere sordi rispetto all’allarme delle nuove forme di fragilità. «La Pastorale giovanile», ha osservato don Luca Ramello, direttore dell’Ufficio giovani della diocesi nell’introdurre gli interventi della mattinata, «è per chi ama i giovani, come diceva don Bosco, non è solo un compito per gli addetti ai lavori. Le nostre comunità devono dunque imparare a vivere con i giovani lasciandosi trasportare dal loro linguaggio».

Ed ecco l’appello dell’Arcivescovo diffuso attraverso un videomessaggio (mons. Nosiglia nelle stesse ore interveniva all’inaugurazione dell’anno giudiziario del Tribunale ecclesiastico piemontese) che ha richiamato la comunità ecclesiale e civile «a non alzare il velo di fronte alle proporzioni allarmanti che hanno assunto fra i ragazzi i fenomeni delle dipendenze, bullismo e cyberbullismo, ma a considerare le reali incidenze che essi hanno sulla vita ed il futuro delle nuove generazioni». «Mancano educatori», ha osservato mons. Nosiglia, «capaci di accompagnare i ragazzi con serietà e autorevolezza. Il senso della vita stessa viene meno proprio quando non è collegato a precise responsabilità, da assumersi anche con spirito di sacrificio. La fragilità, il soggettivismo, l’insicurezza ed una cultura del ‘mordi e fuggi’, senza progettualità per il domani, rendono tutto superficiale ed incolore».

Leopoldo Grosso alla Giornata Caritas

Leopoldo Grosso dell’Università della Strada del Gruppo Abele nel commentare i dati torinesi sulle povertà minorili ha sottolineato come oggi «più si è giovani più si è poveri». «La povertà economica», ha osservato Grosso, «si trasforma in povertà relazionale e dunque educativa con una dispersione scolastica sempre più accentuata fra gli adolescenti. C’è il rischio che gli anni della formazione diventino gli anni dell’inconcludenza». In questo contesto è centrale l’impegno delle comunità «per generare possibilità di riscatto».

La Giornata ha poi toccato il tema delle nuove coordinate del volontariato giovanile. Numerose le proposte in diocesi che offrono ai giovani opportunità di fare servizio come Young Caritas, Servire con Lode e il Servizio civile nazionale, o orientarsi nel mondo del lavoro come il progetto Policoro. «È necessario mettere insieme le generazioni», ha detto don Luca Peyron, direttore della Pastorale universitaria, «per educare, educarsi e lasciarsi educare, in primo luogo rispettando i tempi dei ragazzi».

Il direttore della Caritas Diocesana Pierluigi Dovis nel tirare le fila dei lavori della mattinata ha espresso «l’urgenza di mettere in pista seri investimenti in primo luogo sulla formazione dei ragazzi». Ed ecco l’appello ai gruppi caritativi a sostenere i nuclei famigliari anche con l’attenzione al percorso scolastico dei minori e giovani. «Non basta puntare ad aumentare il reddito delle famiglie più povere», ha detto Dovis,  «altrimenti costruiremo dei figli votati ad una povertà maggiore dei genitori». Il primo riscatto passa, infatti, dalla scuola e dalla formazione.

 

Di seguito pubblichiamo il testo del videomessaggio dell’Arcivescovo mons. Cesare Nosiglia diffuso alla Giornata Caritas:

«Se sarete quello che dovete essere, metterete fuoco su tutta la terra» (omelia alla S. Messa di chiusura della XV Giornata mondiale della gioventù, Tor Vergata, domenica 20 agosto 2000): è l’invito che Papa Giovanni Paolo II rivolse ai giovani nel Giubileo del 2000 e che facciamo risuonare anche oggi, parlando non tanto dei giovani e sui giovani, in rapporto al tema della giustizia e delle opportunità, ma per mettere subito al centro del mio intervento un approccio positivo e incoraggiante verso i giovani, considerati soggetti e non solo destinatari delle iniziative delle nostre comunità e di loro educatori.

Le nuove povertà dei giovani – L’impegno educativo e la formazione esigono un costante accompagnamento, per prevenire situazioni di disagio, di fenomeni gravi come la diffusione della droga (a partire da quelle leggere, anticamera di quelle pesanti) e di altre devianze, che preoccupano le famiglie e la società, come il bullismo e il cyberbullismo, che crescono anche negli adolescenti, o il gioco di azzardo e l’alcool, che seminano lutti e tragedie e costano alla società moltissimo in termini di recupero delle persone. Non mancano poi situazioni crescenti di vere forme di povertà, anche fisiche e materiali, che colpiscono tanti ragazzi e giovani minori, non solo provenienti dai Paesi di immigrazione, ma anche originari del nostro Paese, a causa del crescente numero di tante famiglie senza lavoro. Sul tema del lavoro dei giovani, poi, sappiamo che la nostra Regione è quella che ha sofferto e continua a soffrire di più, nell’assicurare loro un’occupazione.

Nella recente inchiesta, promossa dalla Regione e dalla Conferenza episcopale del Piemonte e della Valle d’Aosta, è emersa con evidenza la situazione dei “neet”, giovani che né lavorano né studiano, perché sfiduciati, e vengono mantenuti dai genitori e dai nonni, senza più nutrire speranze per il proprio futuro. Inoltre, si è evidenziato che per i giovani, che hanno cercato e trovato un lavoro, si è trattato per lo più di un fatto precario, che va dai pochi giorni a una settimana, a un mese o tutt’al più a tre mesi o sei al massimo. Naturalmente, quando si fanno poi le statistiche del lavoro dei giovani, si afferma che questi lavorano, senza sottolineare quanto precario sia tale lavoro.

Le responsabilità del mondo adulto – Di fronte a tutte queste povertà, si tende purtroppo ad alzare il velo e si preferisce nascondere o far finta che non esistano nelle proporzioni allarmanti che invece possiedono. Famiglia, scuola, comunità religiosa e civile appaiono reticenti nel riconoscere non tanto il fenomeno, ritenuto comunque presente e diffuso, ma le concrete e reali incidenze che esso ha sulla vita ed il futuro delle nuove generazioni. Si ha quasi timore di trovarsi di fronte al proprio figlio, o alunno, o ragazzo e giovane, conosciuto ed accolto nei vari gruppi, e scoprire che quel bravo ragazzo o ragazza utilizza sostanze stupefacenti, frequenta compagnie di branchi organizzati che impongono con la violenza la loro voglia di prevalere. Ne va del buon nome della famiglia, o dell’immagine della scuola, o della palestra, o dell’oratorio. Insomma, si preferisce nascondere o circoscrivere nel privato personale il fatto, rifuggendo da una presa d’atto realistica e severa, che esigerebbe un forte impegno preventivo sul piano educativo ed un costante accompagnamento fatto di dialogo, incontro, sostegno.

Oggi, i ragazzi e i giovani hanno attorno a sé tante persone, che offrono loro una serie di servizi, anche qualificati, ma pochi educatori nel senso pieno della parola, ossia capaci di accompagnarli con serietà e autorevolezza, non presentandosi solo come amici, ma come padri e maestri di vita e di impegno; non solo come maestri di parole e di regole che per primi non osservano, se non in modo formalistico. È il senso della vita stessa che viene meno, se non è collegato a precise responsabilità, da assumersi anche con spirito di sacrificio. Altrimenti la fragilità, il soggettivismo, l’insicurezza ed una cultura del “mordi e fuggi”, senza progettualità per il domani, rendono tutto superficiale ed incolore, dal punto di vita morale e personale. Si attenua la coscienza, si rincorre l’attimo e tutto diventa lecito, perché possibile e fattibile a poco prezzo. Di questo, credo che la colpa sia anzitutto di noi adulti, che da tempo abbiamo perso la volontà di parlare con i giovani e di incontrarli sul loro stesso terreno di vita e di esperienza. La separatezza delle generazioni è una delle conseguenze dell’incomunicabilità tra adulti, anziani e giovani, che pesa fortemente sulla nostra società.

Abbiamo costruito una serie di monadi, separate l’una dall’altra, per cui dove ci sono i giovani non ci sono gli adulti e viceversa, perdendo così la ricchezza della memoria e del futuro e vivendo tutti chiusi nel presente, dove ciascun mondo vive per se stesso, cercando di gestire la propria vita al meglio delle proprie possibilità ed esigenze. Su tutto domina poi il divertimento evasivo, il permissivismo ad oltranza, che crea solo vuoto esistenziale e noia della stessa vita. Solo ricuperando il dialogo, l’incontro e il mettere insieme le risorse, che ogni generazione possiede, possiamo sperare di ristabilire un interscambio di doni e di responsabilità, che crea comunione e quel tessuto di relazionalità necessarie a sostenere poi i problemi gli uni degli altri.

I soggetti educativi fondamentali – Il tutto deve iniziare dal soggetto fondamentale, che oggi è anche il più esposto alla debolezza sul fronte dell’educazione: la famiglia. Senza la famiglia, è illusorio pensare di poter vincere qualsivoglia battaglia contro le nuove povertà dei giovani. È sulla famiglia che dobbiamo ancora una volta puntare, non lasciandola sola ed indifesa di fronte al problema, ma sostenendola sul piano umano, spirituale e sociale, come pure legislativo, economico  e giuridico. Non possiamo stemperare o snaturare il significato portante dell’istituto familiare; non possiamo continuare ad orientare i consumi e le risorse sulle esigenze individuali delle persone, disattendendo quelle della famiglia; non possiamo equiparare alla famiglia qualsiasi modello di convivenza, come se fosse irrilevante la sua stabilità e solidità morale.

Accanto alla famiglia, la scuola, gli oratori, le associazioni di ogni tipo, da quelle sportive a quelle culturali e sociali, il volontariato: tutte realtà che possono rappresentare, se orientate su valori condivisi di rigore culturale e morale, una rete educativa e formativa primaria per indirizzare le nuove generazioni su vie di responsabilità e di impegno. Anche il lavoro, con le esigenze di professionalità e competenza che porta con sé, può rappresentare un veicolo importante per il nostro obiettivo: un lavoro che non esalti solo il profitto e la ricchezza, ma dia spazio alla creatività giovanile nell’artigianato come nell’imprenditoria ed offra reali possibilità di valorizzazione dei giovani nel processo produttivo. Ma fino a che punto oggi il mondo del lavoro è attento ai giovani e alle loro speranze e attese? Fino a che punto si investe realmente sui giovani, dando loro concrete possibilità di sbocco professionale e stabilità, in modo da guardare al loro futuro con serenità e sicurezza? Fino a che punto il lavoro è oggi veramente per l’uomo e non l’uomo per il lavoro?

Infine, il problema delle nuove povertà giovanili investe anche la cultura sociale e quella della comunicazione, che devono darsi un codice morale più rigoroso ed attento al cosa dire e cosa proporre ai giovani di oggi. Un’esaltazione dell’evasione e del disimpegno, sia in campo affettivo sia in campo sociale, ed una comoda neutralità o indifferenza, che sfugge dal dovere di guida proprio dei genitori e degli educatori per timore di apparire moralistici o non accettato, conducono ad alimentare la cultura dell’individualismo e della superficialità, a scapito della responsabilità sia verso se stessi sia verso la società. Ne consegue un livellamento al basso di ogni valore, compreso quello della libertà, ridotta a semplice soddisfazione di desideri e pulsioni materiali e momentanee, senza prospettive e significato per il domani della propria vita.

La parola ai giovani – Nel Convegno ecclesiale nazionale di Firenze del 2015 sul nuovo umanesimo in Gesù Cristo, il gruppo dei giovani ha espresso alcune considerazioni stimolanti, in particolare per comprendere il loro stato d’animo, che si esprime a volte con la rabbia e il rifiuto, con la rassegnazione o con l’abbracciare tutte quelle povertà esistenziali che ne condizionano la speranza e il futuro. Essi hanno detto che i giovani  vivono la loro esistenza “in uscita”: in una società che sembra non aver più bisogno di loro, in una Chiesa per la quale provano poco interesse e fascino, perché molto paternalistica, a volte troppo accomodante e a volte troppo rigida e lontana dal loro mondo… Le comunità non di rado tendono a trattenere i giovani, in un disperato tentativo di serrare le fila, nella paura che se ne vadano, che si intromettano, che si sporchino. Occorrono comunità audaci, capaci di scommettere sui giovani, ben sapendo che commetteranno errori e combineranno guai, ma pronte ad accoglierli e comprenderli (non a scusare ogni pigrizia e tollerare l’apatia).

Noi – ci dicono i giovani – ci siamo e siamo disponibili a metterci in gioco, facendo la nostra parte con impegno: occorre che gli adulti ci trattino non come persone che debbono essere guidate, o criticate, ma come interlocutori con cui scommettere insieme sul futuro di cambiamento della società e della Chiesa, di cui desideriamo essere protagonisti. Vogliamo ciò che è giusto e non sussidi  passeggeri, che accontentano sul momento, ma lasciano succubi sempre di altri. Siamo consapevoli che abbiamo davanti a noi la sfida più impegnativa del nostro tempo: quella di uscire fuori dal nostro mondo, che ruota tutto attorno a noi stessi, e diventare propositivi della nostra fede, amicizia e impegno verso tanti che vivono ai margini delle nostre comunità, in condizioni di povertà ben più gravi delle nostre, e che si incontrano all’Università, nei luoghi del tempo libero e del divertimento, nello sport o sul lavoro, sulla strada… Lì è necessario non essere o sentirsi soli, per cui occorre fare alleanze  con altri credenti o non, per portare una testimonianza fattiva di valori positivi, ma anche alternativi, e dunque saper andare anche controcorrente.

Per questo, chiediamo alle nostre comunità di sostenerci con l’esempio e la testimonianza offerta non solo da gruppi di persone adulte e anziane, generose e dedite alla carità e alla solidarietà, ma dell’intera comunità, la quale assuma la responsabilità di farsi carico degli ultimi e degli scartati, senza tanti “se” e tanti “ma” di distinzione tra “i nostri” e “gli altri”, ma con la massima disponibilità di personale, di strutture e di mezzi, messi a disposizione di questa causa evangelica e sociale.

La difficoltà di uscire dai “nostri” ambienti – Queste considerazioni sono realistiche e interpellano tante nostre comunità: all’impegno di diversi giovani animatori dell’oratorio, capi e responsabili di associazioni e movimenti, non corrisponde un’uguale disponibilità per l’azione missionaria nella “città dell’uomo”. La comunicazione della fede è vissuta come un impegno da sviluppare dentro la comunità e non fuori di essa. E per comunità, si pensa quasi esclusivamente alla propria parrocchia, o associazione, o movimento. Tutto ciò che viene proposto al di là delle mura di queste “cittadelle” è considerato superfluo, o un’aggiunta faticosa, se non una perdita di tempo. Per cui, già a livello di unità pastorali è difficile incontrarsi, tanto meno a livello diocesano. La “Chiesa in uscita”, di cui parla con insistenza Papa Francesco, è oggi la principale sfida, che coinvolge le nostre parrocchie e ogni realtà ecclesiale – e in particolare proprio la pastorale giovanile.

L’Assemblea diocesana e la mia Lettera pastorale dello scorso anno hanno stimolato tutti i giovani a gettarsi con coraggio apostolico nel campo della missione, aprendo le porte del proprio cuore e impegno verso i coetanei, sia quelli delle parrocchie vicine sia quelli che si incontrano nelle iniziative diocesane e negli ambienti di vita, dall’università alla scuola, al lavoro, al tempo libero, al sociale… Non bisogna escludere da questo campo d’azione gli ambienti di frontiera, come i supermercati e le varie “movide”, disseminate nel territorio della diocesi, alcuni bar o luoghi di ritrovo e la stessa strada… dove tanti ragazzi e giovani, come ai tempi di Don Bosco, passano la loro giornata e le serate. Don Bosco andava a cercare i giovani, anche più “lontani e invisibili”, là dov’erano, perfino nelle carceri, e infondeva nel loro cuore un tale spirito missionario, che a loro volta diventavano trascinatori degli amici nell’incontro con Gesù e il Vangelo. È giunto il tempo di fare altrettanto: annunciare il Vangelo della gioia e con gioia è il primo compito di ogni credente e della Chiesa, ci dice Papa Francesco. Occorre che i nostri giovani si chiedano allora con sincerità se veramente sono contenti di essere cristiani e di vivere da amici di Gesù e tra loro. Se sinceramente diranno di sì e avranno il coraggio di testimoniarlo a tutti, allora la loro gioia si raddoppierà e diventerà contagiosa per tutti.

Alcune scelte concrete missionarie sono inoltre queste:

  • favorire nei ragazzi e giovani stessi l’impegno a essere promotori di proposte ai loro coetanei, invitandoli all’oratorio o all’associazione, in determinate occasioni di incontro e di festa insieme;
  • promuovere iniziative tra oratori e parrocchie della stessa unità pastorale, per incontrarsi, conoscersi e avviare iniziative insieme sul territorio;
  • partecipare alle iniziative diocesane, che aprono i giovani a un’esperienza di Chiesa piena e necessaria, per viverla poi nel loro quotidiano impegno;
  • favorire qualche uscita dei gruppi di ragazzi e giovani per impegni di solidarietà in favore dei poveri, vera via di promozione umana e sociale delle stesse persone dei giovani, oltre che esperienza della vera gioia del Vangelo, che nasce dal dono di sé per gli altri.

Non illudiamoci però di poter inserire i giovani nelle nostre Caritas o san Vincenzo parrocchiali. I giovani devono essere messi in grado di programmare e gestire loro in prima persona il vasto campo della carità, della solidarietà e del servizio. Se diamo loro fiducia nel promuovere iniziative  inventate e gestite da loro stessi, allora si mostrano estremamente generosi, altrimenti non troveremo una risposta appropriata alle nostre attese e richieste di adulti. I giovani desiderano conquistarsi gli spazi e le potenzialità per impegnarsi nell’ambito del sociale con la loro creatività, intraprendenza e novità. Accogliamo queste provocazioni e operiamo perché le comunità cristiane della nostra diocesi siano aperte ad ascoltare e accogliere i giovani per quello che sono, dando loro fiducia e responsabilità e spronandoli a non arrendersi mai di fronte alle difficoltà e a fidarsi sempre del Signore; ma diamo anche noi adulti esempi coerenti e concreti di questo impegno, perché solo così saremo veri educatori e testimoni, come è stato san Giovanni Paolo II, che era molto amato dai giovani perché, più che “dovete”, diceva loro “potete”, sottolineando le loro capacità e stimolandone l’orgoglio.

Due appuntamenti importanti  – Ricordo infine due appuntamenti importanti dei prossimi mesi, che meritano la nostra attenzione. Il primo è l’Assemblea diocesana di giugno, che affronterà il tema proprio del Sinodo dei giovani, relativo alle vocazioni. Don Bosco affermava che un ragazzo su tre ha la vocazione al sacerdozio o alla vita consacrata. Oggi può sembrare utopistico tutto ciò, eppure è ancora vero, se quando vado nelle scuole di ogni ordine e grado le domande più insistenti che mi rivolgono ragazzi e giovani riguardano la mia vocazione: cosa che mi desta meraviglia, ma che in realtà corrisponde a quel desiderio forte di trovare un senso più pieno e meno superficiale e precario per la propria vita. La nostra prossima Assemblea diocesana di giugno tratterà di questo ambito; già fin d’ora prepariamoci per aiutarci a promuovere un cammino vocazionale sempre più fruttuoso nella nostra diocesi, grazie all’impegno corale delle famiglie e delle comunità, ma soprattutto grazie all’impegno responsabile dei giovani stessi.

Il secondo appuntamento è in programma per l’estate, dal 9 al 10 agosto a Torino: l’incontro con tutti i giovani delle diocesi del Piemonte e Val d’Aosta, che comprenderà anche la contemplazione ravvicinata della Sindone. Successivamente, l’11 e il 12 andremo a Roma, per incontrare Papa Francesco. Due tappe che ritengo importanti non solo per i giovani, ma per la nostra Chiesa di Torino, e che meritano dunque la nostra attenzione e la partecipazione attiva e convinta di tutte le componenti ecclesiali, chiamate ad offrire il proprio contributo per la buona riuscita soprattutto dell’Assemblea, che ci riguarda tutti.

+ Cesare Nosiglia, Arcivescovo

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