«Il 7 agosto 1854 dopo una lunga sequela di dissesti gastro-enterici e di abbondanti diarree, che da oltre un mese duravano, irruppe il cholera nella Piccola Casa della Divina Provvidenza. Due casi fatali si manifestavano nella sera di quel giorno e in donne che, da lungo tempo ricoverate in quell’ospizio, non avevano avuto comunicazione di sorta con cholerosi. Il giorno dopo altri tre casi gravissimi in persone già ricoverate nell’ospedale, che con le prime non avevano comunicato. Lo stabilimento è diviso in varie sezioni, le quali non hanno che fare l’una con l’altra. In quel pio ricovero il cholera menò vera strage: in quattro mesi di epidemia 97 furono i casi e 56 i decessi. Di 22 “famiglie” che nella Piccola Casa vivono una vita separata, 6 soltanto si conservarono illese dall’epidemia. Le altre 16 qual più qual meno furono tutte malmenate; ma le maggiori vittime si ebbero nelle infermerie di malattie comuni, nella sezione degli epilettici, in quella degli imbecilli. Non una persona di servizio, non una suora e nemmeno una lavandaia ebbe a soffrire della malattia, tranne due figli dell’ospizio destinati al trasporto dei cadaveri».
Una cronaca di un secolo e mezzo fa descrive il colera che a Torino in quattro mesi, nell’estate 1854, su una popolazione di 160 mila abitanti, registra 1.438 decessi e il terrore di contrarre il morbo contagia anche la corte dei Savoia e gli esponenti della vita pubblica. Il quartiere più colpito è quello di Valdocco, dove nella sola parrocchia di San Gioacchino a Borgo Dora in un mese ci sono 800 colpiti e 500 morti. Vicino all’Oratorio di don Giovanni Bosco, varie famiglie sono decimate. Il prete castelnovese esercita un ruolo attivo nell’assistenza agli infermi, come scrive il suo biografo don Giovanni Battista Lemoyne: «Il Municipio aveva aperto alcuni lazzaretti per raccogliere i colerosi, che non avevano mezzi di assistenza e di cura nella propria casa. Due di questi ospedali vennero improvvisati in Borgo San Donato, che allora faceva parte della parrocchia San Gioacchino di Borgo Dora. In quello stabilito ove è il Ritiro di San Pietro l’assistenza spirituale fu affidata a don Bosco».
Re Vittorio Emanuele II – ricorda una lapide nel Municipio di Caselette, all’imbocco della Valle di Susa – accetta l’ospitalità offertagli dal conte Carlo Cays, amico e benefattore di don Bosco, trasferendosi nel castello nel luglio-settembre 1854 con la madre Maria Teresa, la moglie Maria Adelaide e i figli. L’inaugurazione a Pinerolo della tratta ferroviaria che la unisce a Torino, una delle prime costruite in Piemonte, avviene in tono minore il 27 luglio 1854. Il colera è causato da un batterio che attacca l’organismo: se non contrastato conduce rapidamente alla morte. A quel tempo le conoscenze scientifiche e mediche sono limitate e si conta soprattutto sul buon Dio.
Il morbo giunge in Inghilterra dall’India nel 1854 su una nave. Da Londra il contagio arriva a Parigi e a Marsiglia. Si disse: «La leggerezza delle autorità sanitarie locali permise lo sbarco da navi che avevano a bordo uomini infetti». Dal Sud della Francia l’epidemia passa in Italia. Da metà luglio 1854 pare che le autorità genovesi non si preoccupassero di avvisare tempestivamente gli Stati italiani del colera che, infatti, dilaga sulle coste liguri e tirreniche a fino a Napoli e Palermo. A Torino l’allarme è dato il 21 luglio: un manifesto del sindaco Giorgio Bellono annuncia le precauzioni da prendere nelle case, nelle officine e nei negozi e crea dei «lazzaretti» per isolare i contaminati. Quello di Borgo Dora dispone di 150 posti letto, con farmacia, cucina, servizi igienici, mezzi di disinfezione e locali per il personale. È proibito lasciare la città.
Le autorità religiose mobilitano il clero e, per evitare gli assembramenti, aboliscono la processione del Corpus Domini. Si stabiliscono misure profilattiche e igieniche, strutture per l’assistenza a malati e moribondi. I torinesi invocato l’aiuto della Consolata, patrona della città. Dal primo allarme don Bosco attrezza l’Oratorio di Valdocco per affrontare il contagio: fa fare dei lavori nei dormitori, dove sono ammassati un centinaio di giovani, per distanziare le file dei letti; si indebita per aumentare la fornitura di biancheria, lenzuola e coperte; si assicura che i locali siano puliti. Ma soprattutto crede soprattutto nell’efficacia della preghiera a Maria, della conversione del cuore, della confessione e della Comunione.
Molte comunità religiose si impegnano non solo ad amministrare i Sacramenti, ma anche a fornire servizi di infermeria. La Conferenza San Vincenzo de’ Paoli, con il presidente conte Cays, è molto attiva e porta lenzuola, coperte, pane e carne alle famiglie. Il Comune cerca infermieri volontari. Don Bosco si appella ai suoi ragazzi: un primo gruppo di 14 volontari di 17-16 e14 anni si affiancano ai membri della San Vincenzo, e quindi sono supervisionati e sostenuti dagli adulti. Don Bosco dà loro severe istruzioni per l’igiene. Questi dimostrano grande forza per sopportare il vomito, la dissenteria, gli odori, il soffocamento, i volti emaciati e pallidi, i corpi torturati. I pazienti terrorizzati devono essere convinti a lasciarsi condurre al lazzaretto, che percepiscono come anticamera della morte.
Dopo pochi giorni una trentina di altri giovani si uniscono alla prima squadra di volontari: tra essi Domenico Savio. Prendono in prestito dall’oratorio biancheria, lenzuola e coperte. Madre Margherita dona la tovaglia dell’altare, che aveva confezionato dal suo corredo di nozze. Quando l’epidemia si estingue don Bosco accoglie un buon numero di orfani, sia per le lezioni durante il giorno, sia per dare loro un rifugio permanente. Dopo questa dura esperienza, don Bosco crea una Conferenza di San Vincenzo a Valdocco. L’epidemia di colera tornerà nel 1865-67, colpendo tutta l’Italia – con 11 mila morti – e coincide con la costruzione della basilica Maria Ausiliatrice, inaugurata nel 1869.
Pier Giuseppe Accornero