Torino non amava il duce

Storia – Cento anni fa a Torino ebbe molta fortuna la battuta su Benito Mussolini – ricordata dallo storico Alessandro Barbero – della quale si ignora l’inventore. In una piola di Borgo San Paolo o di Barriera di Milano, si diceva con una strizzata di occhi: «Monsù Cerüti cul ch’a lu fica ‘n cül a tüti». Al di là della ineleganza, dice che Torino non amava il duce

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Cento anni fa a Torino ebbe molta fortuna la battuta su Benito Mussolini – ricordata dallo storico Alessandro Barbero in un articolo su «La Stampa» – della quale si ignora l’inventore. In una piola di Borgo San Paolo o di Barriera di Milano, si diceva con una strizzata di occhi: «Monsù Cerüti cul ch’a lu fica ‘n cül a tüti». Al di là della ineleganza, dice che Torino non amava il duce, che lo squadrismo non attecchì mai nel capoluogo operaio, che la conquista degli operai da parte del duce fu molto ostica.

Dopo la visita nel 1914 – quando nessuno gli prestò attenzione perché non era  nessuno – torna in città il 23-24 ottobre 1923, un secolo fa, visita la fabbrica Fiat-Lingotto cerca di ingraziarsi l’uditorio proletario: «Io, che ho lavorato con le braccia e vengo dal popolo, vi saluto non con la simpatia dei demagoghi venditori di fumo, ma con la sincerità rude di un lavoratore, di un uomo che vuole imporre a tutti la disciplina necessaria. Abbiatevi la manifestazione della mia simpatia più fraterna con l’augurio che il primato europeo e mondiale della vostra fabbrica non abbia mai a cessare».

La battuta d’monsù Cerutti – ricorda Barbero – «fece presa e continuò a essere usata dagli operai piemontesi: i più anziani ricordavano benissimo che Mussolini si definiva “il più rivoluzionario dei socialisti” e pensavano di avere un conto aperto con lui». Dopo la Grande Guerra squadracce di tutti i generi scioglievano a manganellate le manifestazioni operaie, con il plauso degli industriali che, «a colpi di biglietti da mille tentavano di barattare la loro difesa con il nostro intervento», come ricordò il quadrumviro casalese Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon. Prima ancora che nascesse lo squadrismo fascista, gli arditi in camicia nera occuparono la Camera del Lavoro di corso Siccardi, guidati dal falso capitano e sedicente medaglia d’oro Gino Covre. Poi arrivò – ricorda ancora Barbero – lo squadrismo vero: Piero Brandimarte, capitano dei Bersaglieri e medaglia d’argento, fonda «La Disperata» che il 25 aprile 1921 assalta di nuovo la Camera del Lavoro, distruggendola definitivamente e, fra il 18 e il 22 dicembre 1922, gli uomini di Brandimarte fanno il giro dei quartieri operai, trascinano fuori dalle case 24 comunisti e socialisti, ne massacrano 15 e degli altri non si saprà mai più nulla, buttati e dispersi nel Po.

Scrive Barbero: «Riportare la pace nelle strade di Torino era indispensabile per guadagnare il consenso dell’unico cittadino a cui il duce non riuscì mai ad applicare la “cura Cerutti”: il senatore Agnelli, fondatore e proprietario della Fiat, che faceva perdere la pazienza a chiunque», tanto che Mussolini scrisse al prefetto di Torino rilevando «il grave e assurdo pericolo che la Fiat finisca per considerarsi un’istituzione intangibile e sacra». Mussolini e Agnelli si detestavano, nonostante un’armonia di facciata, e il dittatore non amava né Torino né i suoi operai che, per il liberale Piero Gobetti, erano «l’aristocrazia operaia» ed essi ricambiano il sentimento.

Dieci decenni fa erano gli anni di consolidamento del regime. Il dittatore eleva sperticati elogi al passato militaresco del Piemonte sabaudo e inaugura, nell’atrio del Municipio, una lapide in memoria dei caduti fascisti.

Torino è tanto centrale nelle agitazioni rivoluzionarie dopo la Grande Guerra, quanto è marginale nell’ascesa e nel trionfo del fascismo. Il primo fascio in città è della primavera 1919 ma le adesioni non vanno al di là di qualche decina di «camice nere» che distribuiscono materiale antisocialista. Il quadrumviro De Vecchi arriva a minacciare Agnelli, che fa parte della «plutocrazia industriale della città», accusata di essere troppo tiepida verso il fascismo. Il rapporto del regime con la città si sviluppa in maniera anomala perché gli industriali scavalcano il partito locale e stabiliscono un canale di comunicazione diretto e privilegiato con il duce. La concentrazione di una classe operaia che – nonostante le sconfitte, diede prova di grande capacità di mobilitazione – determina una naturale convergenza di interessi tra i capitani di industria e il capo del fascismo, interessati a stabilizzare la situazione della capitale industriale del Nord.

Il Lingotto poi suscita l’ammirato stupore del celebre architetto svizzero-francese Le Corbusier (Charles-Edouard Jeanneret-Gris): «L’enorme fabbrica, 500 metri di facciata; su cinque piani si moltiplicano, come in una griglia, le finestre. Il coronamento è come una nave da guerra a curva tesa sopraelevata alle estremità, con ponti, fumaioli, corti, passerelle. Il tutto di un bianco luminosissimo. Uno degli spettacoli più impressionanti dell’industria, un’opera fiorentina precisa, limpida, netta. È la fabbrica “Esprit nuveau”».

Sorprende il riferimento alla «fiorentinità» per un’opera di due piemontesi, il pinerolese Giovanni Agnelli (committente) e Giacomo Matté-Trucco (progettista), francese di nascita, torinese di laurea e di vita. Un edificio 507×24 metri con due rampe elicoidali alle testate e la pista di collaudo sul tetto. Una «fabbrica totale», inaugurata il 22 maggio 1923 da Vittorio Emanuele III e che Mussolini visitò in ottobre.

Il Consiglio d’amministrazione della Fiat nel 1915 aveva deliberato la costruzione di «un nuovo grande stabilimento a uso americano» al Lingotto per investire i colossali profitti che la Grande Guerra regala alle grandi aziende costruttrici e fornitrici di armi. Nei tempi d’oro al Lingotto lavorano 11.822 operai e 967 impiegati. Osserva

«Avanti!» (22 marzo 1916): «Entrando alla Fiat gli operai devono dimenticare nel modo più assoluto di essere uomini per rassegnarsi a essere considerati degli utensili». Antonio Gramsci descrive l’uscita dalla fabbrica: «Si aveva fretta nel lavoro e nei divertimenti quasi fossimo caricati a molla. Torino non aveva perduto niente del suo aspetto di immenso cantiere. Ma sotto sotto si avvertivano gravi disagi, il crescere di una stanchezza morale».

Sedici anni dopo, il 15 maggio 1939, Mussolini inaugurerà Mirafiori, l’altro grande stabilimento Fiat. Comincia malissimo perché si presenta a bordo della concorrente milanese Alfa Romeo facendo imbufalire padroni, dirigenti e maestranze. Torino riserva un’accoglienza ancora più glaciale di quella dell’ottobre 1923. E dire che il sen. Giovanni Agnelli e il prof. Vittorio Valletta precettarono migliaia di dipendenti e le note informative della polizia segreta fascista avrebbero dovuto indurre il dèspota a maggiore cautela. Dal piazzale, vicino alla pista di collaudo, non si leva alcuna ovazione per il duce, che ha a fianco i dirigenti Fiat, le guardie del corpo, i gerarchi, tutti in camicia nera. Alla sera in albergo lo sentono mormorare «Porca città».

Ma dal 31 marzo 2014 Benito Mussolini non è più cittadino onorario di Torino. Lo ha deciso il Consiglio comunale. Ricevette l’onorificenza con una delibera del Regio Commissario dell’11 maggio 1924. Nella seduta i leghisti hanno tirato fuori una bandiera dell’Unione Sovietica e hanno chiesto che si cambiasse anche il nome di corso Unione Sovietica. Nonostante i tumulti, la mozione di revoca ottiene la maggioranza assoluta con 29 voti, 3 contrari e 5 astenuti: «Benito Mussolini è stato il capo del regime fascista, responsabile della soppressione delle libertà civili, politiche e sociali, di assassini e torture di matrice etnica e politica, e ha reso l’Italia triste protagonista della seconda guerra mondiale con la Germania nazista e vergognosamente corresponsabile dell’olocausto di 13 milioni di persone».

Pier Giuseppe Accornero

 

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