Torino, “non avere paura!”

Cattedrale – L’Arcivescovo mons. Cesare Nosiglia giovedì 24 giugno ha presieduto la Messa solenne nella Festa patronale di San Giovanni Battista spronando i giovani e le famiglie a non avere paura, i lavoratori in difficoltà a non rassegnarsi, gli imprenditori e gli amministratori pubblici a non tradire la propria missione. GALLERY

264

Pubblichiamo l’omelia che l’Arcivescovo mons. Cesare Nosiglia ha pronunciato giovedì 24 giugno in Cattedrale a Torino nella Messa per la festa patronale di San Giovanni Battista.

San Giovanni, ci dicono i Vangeli, viveva nel deserto. Sperimentava la solitudine, la povertà, il silenzio. Sono le stesse cose di cui noi abbiamo paura, anche oggi, in questi mesi di distanziamento. Noi, a differenza di San Giovanni, non abbiamo scelto silenzio e solitudine, e la povertà ci pesa soprattutto perché mette ancor più in risalto le disuguaglianze che esistono fra di noi, in strati diversi della popolazione. Abbiamo scoperto, amaramente, che tante volte le difficoltà ci hanno diviso, hanno creato differenze ancor più profonde tra ricchi e poveri, giovani e anziani, centro e periferia. Abbiamo visto da vicino quanto vale il bene della salute, quando tanti di noi l’hanno perduto, perdendo la stessa vita. Ma abbiamo vissuto, anche, una stagione intensa di solidarietà. Abbiamo riscoperto la gioia di essere attenti gli uni agli altri. Abbiamo capito, insieme, che se non ci sosteniamo a vicenda, corriamo tutti il rischio di precipitare. Sapremo far tesoro di questa lezione?

Il Vangelo ci indica una via che Giovanni Battista ci propone con il suo esempio. Testimonia che la gente «accorreva a lui da tutta la regione», e venivano «tutti gli abitanti di Gerusalemme». San Giovanni, dal suo silenzio, dalla sua solitudine diventa comunque “popolare”. E la sua reputazione non è effimera, legata a qualche sondaggio. Non venivano a lui per il fascino del deserto, per fare un’escursione fuori città. La gente andava a cercare il perdono. Chiedeva il battesimo, cioè la possibilità di rinascere a vita nuova, di cancellare il peccato e le sue conseguenze. Era la forza della parola di Giovanni, l’austerità della sua vita, a farne un richiamo. Perché per gli abitanti di Gerusalemme tutto ciò che era fuori dalla Città Santa non aveva significato; il centro del mondo era lì e da nessun’altra parte. Ricordate cosa dicevano di Gesù, della sua missione, dei suoi discepoli: «Da Nazaret può venire qualcosa di buono?» (Gv 1,46). Anche questa è una lezione importante per noi: quante volte ci ritroviamo a scoprirci autocentrati, interessati esclusivamente alla vita che ci siamo scelti, chiusi a tutto quanto può disturbare o distrarre il nostro mondo? Le parole di San Giovanni scuotono certezze, spalancano la vita all’occasione di un rinnovamento profondo. Egli, il patrono che da secoli la nostra città si è scelta, è ancora con noi qui oggi – non solo con la sua reliquia, ma con la sua parola e la sua testimonianza, così come la conosciamo dai Vangeli. È qui, continua a parlarci, perché ci annuncia il Signore Gesù, la via maestra della nostra salvezza. Questo è il suo compito: ed è il motivo per cui lo invochiamo, perché intorno a questo giorno facciamo festa nonostante tutto, anche quando le cose non vanno come noi desideriamo.

San Giovanni è la nostra memoria, il filo rosso che tiene unita la nostra storia. In questa cattedrale si sono celebrati, nei secoli scorsi come negli anni nostri, tutti i grandi avvenimenti della città. Qui la gente è venuta da ogni dove per venerare quella Sindone che ci richiama l’immagine stessa del Signore. Quell’immagine continua a interrogarci, dal silenzio, dalla solitudine e dalla povertà, dall’abbandono della morte. Ma continua anche ad essere per noi ragione di speranza e spinta forte alla carità, alla vita. Perché, appunto, il Signore è risorto. Da undici anni vivo l’onore e la gioia di essere con voi, a Torino, nel giorno della festa del patrono. Ma non è il momento né il luogo per fare bilanci, né per lasciare ammonimenti o lanciare profezie. Sento però come dovere quello di rivolgermi ancora una volta a tutte le componenti della città, così come Giovanni Evangelista si rivolge alle comunità cristiane che è chiamato a servire (cfr. 1Gv 2,12-15).

Chiedo a voi, giovani e famiglie, di non avere paura del presente né del futuro: le prove da superare sono occasioni per temprarsi e per crescere in quell’amore che non ci abbandona mai.

Chiedo a voi, anziani, di non essere gelosi del patrimonio di esperienza e saggezza che avete maturato. Nelle epoche di grande cambiamento, il tesoro comune consiste proprio nel sapersi incontrare, nell’attuare quell’alleanza fra generazioni che è fondamentale non solo per il lavoro, ma per la crescita equilibrata della società intera.

Chiedo a voi, immigrati, profughi che vivete tra noi e con noi, di non scoraggiarvi anche di fronte a un’accoglienza a volte sospettosa; e di dimostrare, invece, che il vostro essere qui è per contribuire a far crescere insieme la nostra comunità, di cui conoscete e accettate le regole comuni.

Chiedo a voi, lavoratori che ho sempre portato nel cuore e dei quali mi sono impegnato a sostenere le battaglie per mantenere un posto di lavoro e le vostre giuste rivendicazioni, di non rassegnarvi, ma di unire le forze ed essere coraggiosi e determinati, perché la giustizia trionfi su tante promesse che restano spesso inevase e aggravano ancora di più le già difficili e complesse condizioni della vostra vita e delle vostre famiglie. Ringrazio le organizzazioni sindacali, con le quali ho collaborato in tante situazioni difficili, che mi hanno confermato nella stima verso di loro, per la dedizione e la passione con cui le ho viste operare a servizio dei lavoratori.

Chiedo a voi, imprenditori, amministratori pubblici, rappresentanti del popolo, di non tradire mai la vostra missione. Senza l’orizzonte del bene comune, ogni impegno è vano; senza il criterio della giustizia e della trasparenza, tutti perdono di vista la comunità, che è invece il nostro primo patrimonio. Per questo siamo chiamati qui e oggi a ricostruire segni di speranza, là dove è stata abbandonata. Torino non era solo la città dell’automobile, ma era anche la città del lavoro. Questa lunga trasformazione, ancora incompiuta, sta minando l’identità sociale ed economica del nostro territorio. Facciamo “sistema”, affinché Torino possa ripartire dalle sue origini e tradizioni, avendo lo sguardo rivolto verso il futuro. Torino deve tornare a correre e deve farlo insieme a tutti, senza produrre quella “cultura dello scarto”, di cui Papa Francesco ci ha spesso parlato.

Ai preti e ai diaconi, alle religiose e ai religiosi, ai consacrati e ai laici chiedo di rimanere fedeli alla vocazione cui siamo stati chiamati. Una vocazione che è fonte di gioia e di felicità che appartengono non solo a noi, ma anche a tutti quelli che siamo invitati dal Signore ad accogliere e ad amare.

Il mio cammino con voi, in mezzo a voi, ha voluto essere quello di un padre e di un amico – per come ho potuto, con tutte le forze che avevo. Quello del vescovo non è un mestiere e non è neanche una vocazione. È la continuazione di una catena lunghissima, che da venti secoli collega gli apostoli, i primi testimoni del Signore, alla nostra realtà di oggi. È Cristo il vescovo delle anime nostre, che ci accompagna e che suscita in mezzo a noi la vera vita. Ho sempre ritenuto che il mio primo compito sia quello di illuminare questa vita comune, di far vedere la presenza del Signore in mezzo a noi. Il Signore stesso ci indica chiaramente dove si trova e come riconoscerlo. La sua via è la via dei poveri, dei miseri, dei senza futuro. Restituire dignità e speranza, condividere la gioia e i beni della terra con tutti coloro che vivono con noi, senza lasciare indietro nessuno: a questo siamo chiamati, come comunità e come città. Di questo il Signore ci chiede conto ogni giorno e ci chiederà conto alla fine.

Per questo non possiamo permetterci di essere senza memoria; non possiamo illuderci che la nostra vita si gioca soltanto nel futuro, sulle cose che vorremmo costruire. Il nostro presente è saldamente ancorato nella nostra storia. Ecco perché non possiamo pensare e vivere la città, che è di tutti, come un arcipelago di isole separate. Ecco perché non possiamo pensare che i problemi dei giovani, delle persone fragili, dei disoccupati, dei profughi non ci toccano. In questi anni, abbiamo dedicato molte energie a combattere battaglie che magari apparivano perdute in partenza. Ma non lo abbiamo fatto per questioni di principio, di ideologia, o per apparire sui giornali e in televisione. L’abbiamo fatto perché non si poteva fare diversamente. Non si poteva tacere.

I santi sociali, che tante volte abbiamo richiamato e invochiamo, sono stati suscitati in mezzo a noi proprio per restituire dignità ad ogni persona, ad ogni cittadino di questa città. E i santi, lo sappiamo bene, nascono per non morire.

Come sta scritto sul voltone di via Cottolengo, è la carità di Cristo che ci spinge. Quella, e niente altro.

✠ Cesare NOSIGLIA
Arcivescovo di Torino

LASCIA UN COMMENTO

Inserisci il tuo commento!
Inserisci il tuo nome