
Era la gelida e nevosa domenica di Carnevale, 13 febbraio 1983, trentacinque anni fa. Una spaventosa tragedia al cinema «Statuto», vicino alla centralissima piazza Statuto di Torino, provocò 64 morti asfissiati nell’impossibile, ultimo e disperato tentativo di sfuggire alla trappola di fuoco e fumo che, con incredibile rapidità, si sono propagati nel locale.
«Una tragedia incredibile che colpisce tutta la città. Dobbiamo stare vicini alle vittime e ai parenti» dichiarò il cardinale arcivescovo Anastasio Alberto Ballestrero. Fu una delle sciagure più atroci e di più vaste proporzioni accadute a Torino nel secondo dopoguerra. L’arcivescovo rientro precipitosamente in città da un incontro con una comunità parrocchiale. Accanto il sindaco, Diego Novelli, ammutolito da una sciagura che colpiva tutta la città in una giornata di festa. Nell’ultima domenica di Carnevale e a causa dell’abbondante nevicata i cinema torinesi erano particolarmente affollati. Anche lo «Statuto»: al film «La capra» c’erano non meno di 250-300 persone, in gran parte giovani, coppie di sposi e di fidanzati.
Verso le 18.15, nella galleria esplode un incendio. In un attimo le fiamme si propagano all’arredo particolarmente infiammabile. La sala si riempie di fumo e di fuoco. Gli spettatori della galleria si precipitano verso le uscite. Il panico si impadronisce di tutti. Solo verso le 22.30 i vigili del fuoco e i soccorritori riescono ad estrarre i cadaveri sfigurati, devastati, irriconoscibili degli spettatori. Sotto il cinema Statuto c’era una grande autorimessa: è stata aperta e si è trasformata in una improvvisata camera mortuaria.
Ricordo che ho accompagnato l’arcivescovo e il sindaco nell’autorimessa. È stata una scena straziante. Le salme presentavano evidenti segni, non tanto di bruciature ma di soffocamento. Il prof. Pier Luigi Baima Bollone, medico legale del Tribunale, e il sostituto procuratore della Repubblica Gian Carlo Caselli mi dissero: «Pochi sono morti a causa del fuoco. Ad una prima valutazione, la maggior parte delle vittime è dovuta al fumo che li ha soffocati».
Ricordo che quasi tutte le salme avevano braccia e mani verso il volto nel disperato tentativo di difendersi dal fumo, dal fuoco, dall’incredibile calca. Sul gestore del locale pesa un’accusa orribile: aver provocato la tragedia tenendo chiuse a chiave e sprangate dall’interno le porte e le uscite di sicurezza. Una decisione fatale: se le porte fossero state aperte, sicuramente il bilancio delle vittime non sarebbe così elevato. A tarda notte – mentre da Torino dettavo il pezzo a «L’Eco di Bergamo» – una folla di parenti urlava e gremiva via Statuto e le strade adiacenti. Fu una domenica nera: in Valle d’Aosta caddero tre cabine della funivia di Champoluc e morirono 11 persone.
Mercoledì 16 febbraio, ai funerali in Cattedrale, con il presidente della Repubblica Sandro Pertini, Ballestrero parla tra le lacrime di «mistero amaro e durissimo»; richiama le parole di Gesù «Io sono la risurrezione e la vita» (Giovanni 11,25). Mi raccontò padre Giuseppe Caviglia, segretario di Ballestrero: «Era visibilmente scosso, lui che solitamente dominava molto bene le emozioni. Mi disse che la visione di quei corpi anneriti dal fumo era terrificante. Il funerale in Duomo fu tesissimo per la tensione emotiva dei parenti: la sua omelia fu toccante, macerata dal dolore e illuminata dalla fede».
Disse l’arcivescovo: «Queste morti atroci ci trasmettono un messaggio che ci invita a credere più fermamente che la vita è dono, da non sciupare ma da rispettare». E rivolgendosi ai familiari: «I vostri cari risorgeranno e ora, nella pace di Dio, anticipano ciò che un giorno accadrà, al di là dei veli umani, quando i misteri della vita e della morte saranno pienamente svelati». Il cardinale definì Torino «città emblematica. Qui confluiscono persone che cercano lavoro, e non lo trovano; cercano spazi per l’avvenire delle nuove generazioni, e questi spazi si fanno sempre più avari; qui molti sono attratti da quella “fucina” così tormentosa e viva della tecnica, della cultura, della socialità che è la nostra città».
In questa circostanza Torino dimostra l’insospettabile «capacità» dei suoi abitanti di «patire insieme», di condividere il dolore, di partecipare alla sofferenza degli altri. Lo provano il silenzio che ha avvolto la città, lo sgomento che è sceso ovunque, quel raccogliersi spontaneo e commosso di folle attorno alle famiglie.
Compostezza, dolore, raccoglimento. Per tre ore Torino piomba nel silenzio assoluto. Saracinesche abbassate, strade deserte, passanti cupi e silenziosi. Un gelido vento spazza la città che da l’addio a 44 delle 64 vittime dello «Statuto». Una sofferenza straziante. Una grande dignità. Per le altre 20 salme ci furono esequie private, nelle chiese della città, della cintura, al Sud: 80-100 mila persone. Mi dichiarò il vicario generale don Franco Peradotto: «Solo all’ostensione della Sindone del 1978 e alla visita di Papa Giovanni Paolo II nel 1980, ricordo di aver visto tanta gente».
Alla fine della celebrazione la sofferenza dei parenti esplode più acutamente; padri che si buttano sulle bare dei figli; madri, sorelle, giovani amici che scoppiano in lacrime. Accanto alla bara bianca di Giuseppina Vario, 7 anni, seguita da quelle, una accanto all’altra – quasi a voler proteggere anche nella morte la loro bimba – del papà e della mamma. Lo stesso accade per la bara bianca di Andrea Morando, 11 anni, e quella del papà Giancarlo, 40 anni. Lassù nella galleria della morte li hanno trovati abbracciati.
Raccontò Luciano Curino, «principe dei cronisti»: «al primo posto, a fianco dell’altare in Cattedrale, il capo dello Stato Sandro Pertini ha mantenuto la promessa: “Tornerò per il funerale. Non posso mancare”. A vederlo si capisce perché è il Presidente più amato. Il suo dolore è quello di molti padri che fissano con occhi gonfi e rossi bare dove, tra tutti quei fiori, c’è la fotografia a colori di un bel ragazzo e di una giovane piena di allegrezza».