«L’emergenza coronavirus? È come se una valanga si fosse abbattuta sulle nostre già precarie sicurezze. La pandemia a Torino e nella nostra Regione è scoppiata in una situazione di incertezza socioeconomica critica. E certamente la nostra salute psichica viene messa pesantemente alla prova dall’angoscia». Non ha dubbi Salvatore Di Salvo, psichiatra, analista junghiano, presidente dell’Associazione per la Ricerca sulla Depressione onlus, fondata a Torino nel 1996 per svolgere sul territorio un’azione di approfondimento, sensibilizzazione e divulgazione sui temi dei disturbi depressivi e d’ansia.
Il dottor Di Salvo, con alle spalle 40 anni di lavoro di medico psichiatra in strutture convenzionate con il Servizio Sanitario nazionale e come libero professionista, cura per il nostro giornale una rubrica mensile sui temi dell’ansia e della depressione: l’abbiamo raggiunto telefonicamente presso il Centro che ha fondato, chiuso al pubblico dal 13 marzo al 4 maggio per evitare contagi, anche se il servizio d’ascolto di consulenza gratuita è stato sempre attivo tutti i giorni dalle 8.30 alle 12. E sono state centinaia le telefonate di pazienti, ex pazienti ma anche molte persone «nuove» in cerca di sostegno per affrontare le difficoltà di questi giorni (per dare un’idea, in mezz’ora – il tempo della nostra intervista – sono arrivate tre chiamate di aiuto).

Dottor Di Salvo, perché lo scatenarsi del virus provoca angoscia?
L’angoscia è diversa dalla paura. La paura fa riferimento a qualcosa di noto, l’angoscia invece ad un nemico invisibile ma potenzialmente mortale: questo è il coronavirus, non si vede ma sappiamo che ci può uccidere e così si spiega perché la nostra struttura psichica viene sottoposta ad una durissima prova. E questo vale per tutti e non sarebbe normale se non fosse così. Se l’angoscia occupa uno spazio fisiologico ma limitato e che ci consente di svolgere le nostre attività lavorative, di relazione, domestiche e quant’altro, siamo nella norma: del resto negli ospedali la gente muore come vediamo in televisione, leggiamo sui giornali e continua a succedere da due mesi. Ripeto siamo di fronte a un nemico sconosciuto che mi può ammazzare e tutti siamo potenziali killer perché non sappiamo se siamo portatori del virus anche se asintomatici, potrebbe essere un mio famigliare o un vicino di casa a contagiarmi senza saperlo… E poi ci sono i genitori anziani da accudire facendo attenzione a non contagiarli e a non essere contagiati: una situazione tremenda. Al limite, dinanzi ad una congiuntura simile e inedita sarebbe patologica la mancanza di reazioni emotive: saremmo di fronte ad un disturbo della personalità.
Quando dobbiamo preoccuparci?
Quando l’angoscia dà luogo a una sintomatologia che può sfociare verso la patologia? L’elemento centrale è l’interferenza. Facciamo un esempio: lei giornalista deve scrivere un articolo, è angosciata per le notizie che sente sul coronavirus. Se questa angoscia è tale da inibire la scrittura del suo pezzo e la paralizza allora c’è qualcosa che non va. Se l’angoscia blocca la nostra routine, sebbene rivoluzionata dall’isolamento, è un campanello d’allarme e c’è bisogno di aiuto. Spesso sono persone che, avendo una predisposizione soggettiva, sviluppano veri e propri sintomi d’ansia (come attacchi di panico, disturbi del sonno, incapacità di concentrarsi, depressione) che inibiscono le capacità di organizzare la propria giornata. Qui la situazione sintomatica è più grave in quanto interferisce realmente sulla vita.
Chi sono le persone che si rivolgono al vostro centro in questi giorni?
In questi giorni al nostro servizio di ascolto ci telefonano pazienti già in cura per un disturbo d’ansia ma anche tanti «antichi» pazienti che, a fronte di un situazione traumatica come questa, hanno ricominciato a presentare la sintomatologia. Chi è predisposto di fronte ad un evento stressante può manifestare sintomi ansiosi e depressivi e, se sono pazienti o ex pazienti che conosco posso dare indicazioni farmacologiche per arginare i sintomi, mentre per le persone che ci chiamano per la prima volta non posso fare una diagnosi. A tutti dico che dobbiamo pensare che stiamo vivendo una situazione transitoria: in questo momento ciò che può essere utile non è tanto sentirsi compiangere ma piuttosto occorre segnalare la limitazione temporale di tutto questo, non sarà così per sempre. Vorrei però sottolineare che non tutti siamo predisposti ad ammalarci d’ansia. Ripeto l’angoscia in una situazione di questo genere è normale; in chi è predisposto può succedere che ritornino i sintomi e occorre rivolgersi al proprio medico.
Chi sono le categorie più a rischio?
In una situazione di angoscia potenziata come quella che stiamo vivendo sono a rischio le persone più fragili come gli anziani, soprattutto quelli soli, in coppia ci sostiene a vicenda. In questo periodo per gli anziani viene meno l’aspetto relazionale, non tanto riferito ai figli, spesso più assenti per via del lavoro,ma piuttosto ai nipoti. Ci sono schiere di anziani che badano ai nipoti in tempi normali: ma oggi i più piccoli devono stare attenti al contatto con i nonni e, per alleviare la solitudine, ben venga l’utilizzo delle videochiamate che vicariano un po’ la mancanza dei nipotini. Un mese di vita da soli per i nostri vecchi può equivalere a molti mesi e la paura di morire – il covid, viene detto in continuazione, colpisce le fasce d’età più avanzate – può gettarli nel panico.
Altre categorie a rischio sono i disabili fisici a cui è interdetto il supporto di fisioterapie e centri d’incontro o, ancora peggio, coloro che sono affetti da disabilità psichica. Penso ai bambini e agli adulti autistici: le strutture che facevano da supporto sono scomparse e tutto ricade sulle spalle delle famiglie che fanno quello che possono ma non sostituire le terapie. Sono molti i famigliari di disabili e gli anziani che ci chiamano in queste settimane.
Le reazioni alla pandemia sono diverse dunque a seconda delle fasce d’età…
Certamente: per i più giovani, forse, all’inizio è stato come vivere un periodo di vacanza lunga, mentre per gli anziani il rischio depressivo è più alto, anche se mi telefonano molte mamme preoccupate perché i loro figli stanno sviluppando dipendenza e rifugio nel mondo virtuale che, se utile certo per comunicare o per le attività scolastiche on line, superato un certo limite può creare dinamiche patologiche: oltretutto, non andando più a scuola, gli adolescenti sono collegati spesso anche di notte perdendo i normali ritmi di vita. Oltre a patologie fisiche come l’insonnia, il rifugio nei social può creare scollegamenti con la realtà molto pericolosi. Già prima della pandemia molti giovani avevano fatto uno switch dal reale al virtuale diventando dipendenti del web, dai social o dai giochi on line… La speranza è che il rientro alla normalità li riporti ad un equilibrio. Oggi siamo tutti sospesi.
La paura del contagio costringe a casa chi normalmente conduce vite «fuori casa»: figli che vanno a scuola e genitori che lavorano spesso si incontrano solo la sera e nel fine settimana. Quali possono essere i rischi delle convivenze forzate?
Vivere insieme forzatamente per chi non è abituato determina un aumento dei livelli di tensione e di stress per via della riduzione degli spazi personali e della possibilità di movimento autonomo: ricordiamo che la maggior parte delle famiglie abita in alloggi tra i 40 e i 60 metri quadrati: l’isolamento per la pandemia quando hai una casa con giardino, una stanza e un bagno per ogni componente della famiglia è molto meno gravoso ma è un privilegio per pochi. Spesso l’obbligo di convivenza in appartamenti angusti amplifica il pericolo delle violenze domestiche: sono molte le donne e i minori costretti ad abitare con compagni e genitori violenti. C’è uno studio cinese, pubblicato un mese e mezzo fa riferito alla provincia di Whuan, dove si è registrato un incremento significativo dei divorzi conseguenti all’obbligo di convivenza. Anche se occorre sottolineare che dipende come la «clausura» da coronavirus ha sorpreso la coppia: se è solida è usuale che alcune tensioni vengano amplificate, ma se era già instabile, la coabitazione forzata può far precipitare il rapporto. Anche se ribadisco: attenzione a psichiatrizzare o a medicalizzare tutto, è normale che in un momento stressante come quello attuale aumentino gli attriti. Siamo di fronte alla patologia quando si superano i limiti della convivenza civile… Piuttosto, ricevo tante telefonate di mamme che lamentano gli «effetti collaterali» dello smartworking, costrette a lavorare da casa magari con bambini piccoli a cui badare che non vanno a scuola e non si possono affidare ai nonni, una situazione che se va bene durerà fino a settembre. Quasi la totalità delle mamme che lavorano in casa sono costrette a gestire un doppio lavoro, il loro oltre a seguire i figli per i compiti on line, e non staccano mai. E possono considerarsi fortunate perché con lo smartworking hanno la possibilità di mantenere il posto di lavoro. Ma che ne sarà di tutti coloro le cui aziende a causa del coronavirus chiuderanno? Ci prepariamo a un autunno molto pesante…
Da più parti si dice che dopo la pandemia dovremo cambiare i nostri stili di vita. Come ne usciremo? La malattia depressiva – già a livelli di guardia nel nostro paese e nel mondo – avrà un’impennata?
Credo che ci sarà un incremento dei casi di depressione anche perché, come dicevamo, molti perderanno il lavoro con le difficoltà sociali che ne conseguiranno, i primi segnali ci sono già. Inoltre registreremo un forte aumento del Disturbo post traumatico da stress (Dpts, iscritto nell’elenco delle principali malattie psichiatriche): si tratta di un disturbo d’ansia che si verifica con regolarità tutte le volte che l’uomo è sottoposto a catastrofi come terremoti, guerre, alluvioni e la pandemia da coronavirus è equiparabile a questi eventi. Il Ddts è una patologia che si sviluppa anche dopo mesi in seguito all’esposizione di eventi stressanti con minaccia per la vita: insorgono una serie di sintomi come ricordi, sogni traumatici e incubi di trovarsi di nuovo esposti al pericolo. Penso ai malati intubati che hanno visto la morte da vicino, a chi ha perso un congiunto e non l’ha potuto abbracciare, ai medici e al personale sanitario che ha dovuto combattere in prima linea a mani nude contro il virus. Quanti colleghi in ospedale, medici di base, infermieri sono stati mandati allo sbaraglio, soli a fronteggiare il covid, come in trincea senza presidi, senza indicazioni su come procedere, senza risposte alla richiesta dei tamponi per i loro pazienti, quanti sono stati contagiati e hanno perso la vita… Alcuni di loro ci hanno chiamato perché già ora hanno segnali di scompensi ansiosi…
Quali consigli po’ dare per non farsi schiacciare dall’incertezza che stiamo vivendo?
Da sempre il genere umano è riuscito ad adattarsi a situazioni anche difficili: saremo dunque chiamati ad un processo di adattamento, alla convivenza con questo virus che non scomparirà velocemente. Ma questa fase può avere anche una valenza positiva perché l’adattamento consente di aver più cura di se stessi, più attenzioni per i famigliari, gli amici, le persone più fragili, la comunità in cui si vive. Dobbiamo acquisire un nuovo stile di vita e per fortuna abbiamo le risorse: sono rimasto molto stupito durante le festività pasquali, nel ponte del 1° maggio in cui la maggioranza di noi è rimata a casa, c’è chi ha fatto la grigliata sul balcone, chi si è collegato in videochiamata con i parenti e gli amici. E anche la ripresa del 4 maggio tutto sommato è andata bene. Chi trasgredisce ci sarà sempre ma è una minoranza: ed è molto importante perché il pericolo resta mortale. Finché non si trovano terapie adatte e soprattutto il vaccino non potremo dire di aver sconfitto il virus e, se non rispettiamo le misure anticontagio, non si rischia una multa salata ma la vita.
- Informazioni su http://www.depressione-ansia.it – Servizio di ascolto: tel. 011.6699584 dal lunedì al venerdì dalle 8.30 alle 13 e dalle 14.30 alle 19