È un Oscar tinto di nero, in fatto di colore della pelle, quello consegnato domenica 24 febbraio al Dolby Theatre di Los Angeles. Non solo la preziosa statuetta attribuita a «Green Book», il miglior film dell’anno secondo i giurati dell’Academy (vincitore anche del premio per il miglior attore non protagonista, Mahershala Ali, e per la migliore sceneggiatura originale), ma anche i riconoscimenti tributati a «BlacKkKlansman» (sceneggiatura non originale), «Se la strada potesse parlare» (attrice non protagonista, Regina King) e «Black Panther» (costumi, scenografia e colonna sonora). Tutti film di matrice afroamericana, testimonianze appassionate dei diritti della comunità nera, ieri come oggi. Se poi, a parte l’Oscar a Olivia Colman, migliore attrice protagonista per «La favorita», aggiungiamo «Roma» del messicano Alfonso Cuarón (il favorito della vigilia, tre statuette su dieci nominations, ma ‘pesanti’: regia, fotografia e film straniero) e la vittoria come migliore attore protagonista di Rami Malek (nei panni di Freddie Mercury in «Bohemian Rhapsody»), che ha rivendicato con orgoglio di essere figlio di genitori egiziani, possiamo immaginare che la 91ª edizione della Notte delle stelle non abbia rallegrato più di tanto il presidente Trump.
In realtà, il successo di «Green Book» sottolinea il pieno valore di un film capace di indirizzarsi al grande pubblico attraverso una storia portatrice di un messaggio ammirevole. È il 1962, quando un buttafuori italoamericano senza lavoro, Tony Vallelonga, accetta di fare da autista ad un pianista classico afroamericano, Don Shirley, accompagnandolo in un tour negli Stati Uniti per una serie di concerti con il suo trio, di fronte ad un pubblico di ricchi bianchi. Un viaggio puntellato di piccole e grandi sventure nell’America delle discriminazioni razziali, ma contrassegnato dal progressivo avvicinamento tra due uomini quanto mai distanti l’uno dall’altro e dall’abbandono dei pregiudizi sulle loro rispettive culture di appartenenza.
Ispirato ad una storia vera, «Green Book» è un film sorprendente per gli equilibri narrativi che riesce a conservare fino ai titoli di coda e per i sottotesti sociali ed esistenziali che non perde mai di vista, alimentandoli di continuo con un umorismo spassoso e allo stesso tempo amaro. Davvero un film riuscito, quello di Peter Farrelly, ben lontano dai titoli demenziali firmati con il fratello Bobby, da «Tutti pazzi per Mary» a «Scemo & più scemo». Parabola esemplare sulla dignità individuale, «Green Book» è un road movie che si tuffa nel profondo Sud degli States, sulle note di Aretha Frankiln e Little Richard, collocando dentro al mondo, e non solo più ai bordi, due individui legati da un’amicizia che durerà cinquant’anni. Magnifici i due protagonisti: Viggo Mortensen, ingrassato di molti chili, espressioni colorite e un appetito smisurato, e Mahershala Ali (già Oscar per «Moonlight»), eloquio forbito, buone maniere e una solitudine interiore che brucia. Sono loro a dare corpo, volto e parole a «Green Book». E sono loro, da New York alla Pennsylvania, dall’Ohio all’Illinois, dal Missouri al Tennessee, a dare forma e sostanza alla guida turistica verde che dà il titolo al film: un ‘manuale di sopravvivenza’ per viaggiatori dalla pelle scura, con hotel e ristoranti disposti ad ospitare clienti di colore, simbolo cupo di quell’America che, dopo il tramonto, vietava al black people persino di uscire di casa.
Anche «BlacKkKlansman» parla apertamente di razzismo, è ambientato nel passato (stavolta i primi anni ’70, in Colorado) e si rifà ad un fatto realmente accaduto, l’infiltrarsi di un poliziotto di colore nel Ku Klux Klan locale. Un ’arruolamento’ che, partendo da una serie di telefonate del detective nero al Kkk, necessitava obbligatoriamente di un alter ego bianco (nella fattispecie, un collega ebreo) per gli incontri di persona con i membri del gruppo estremista. La pellicola di Spike Lee si muove con humour grottesco, regia energica e soundtrack graffiante lungo il filo dei diritti civili e della storia sociale Usa: il movimento delle Pantere nere, il suprematismo del white power. Stessa epoca (gli anni ’70), ma quartiere di Harlem, Manhattan, in «Se la strada potesse parlare» di Barry Jenkins, in cui una diciannovenne nera in attesa di un bimbo dal fidanzato, anch’egli di colore, si batte per scagionare il giovane, arrestato per un crimine che non ha commesso, sostenuta dall’affetto di parenti e genitori.
Proiettato invece in un futuro non lontano, ma ben ancorato alle radici della black culture, «Black Panther», diretto da Ryan Coogler e prodotto dai Marvel Studios, è il primo kolossal tratto da un fumetto ad entrare alla porta principale degli Oscar. Un film che, portando sullo schermo le avventure del più famoso supereroe di pelle nera, rilancia con libertà fantasy e immaginario pop l’idea che la segregazione razziale sia un’ingiustizia da debellare. Per sempre.