Meritava più convinti festeggiamenti l’euro al compimento dei suoi primi vent’anni. Soprattutto sarebbe stato utile ripercorrerne la stagione in cui venne messo in cantiere, forse gli anni più fecondi della svolta europea verso il suo futuro, a partire da quella cesura che fu nella storia del nostro continente l’abbattimento del Muro di Berlino nel 1989.
Per meglio cogliere il senso e le difficoltà della strada in salita che portò alla moneta unica europea bisogna risalire indietro nel tempo: al 1959, quando Jean Monnet avvertì l’esigenza di armonizzare le politiche economiche, avvalendosi di una moneta unica; al 1970, quando i sei Paesi fondatori adottarono l’ambizioso Piano Werner, che prevedeva una convertibilità monetaria irreversibile tra i Sei, una politica monetaria comune, un mercato unico dei capitali, un’armonizzazione delle politiche di bilancio e politiche strutturali, regionali e dell’ambiente comuni.
Un piano troppo in anticipo sui tempi, andato a sbattere contro la crisi dei primi anni ’70 e l’instabilità monetaria a seguito della sospensione della convertibilità del dollaro in oro del 1971 e contrastato dalla Francia del presidente Pompidou, contrario all’integrazione monetaria che privava la sovranità nazionale di un’arma importante.
Passeranno da allora diciotto anni per vedere quel progetto riemergere nel Rapporto Delors sull’Unione economica e monetaria: era il giugno del 1989, pochi mesi dopo crollava il Muro di Berlino, mentre la Comunità europea a dodici stava portando a compimento il mercato unico alla scadenza del 31 dicembre 1992, come deciso nel 1985 al Consiglio europeo di Milano, dopo che nel 1979 era entrato in vigore il Sistema monetario europeo (Sme), che aveva istituito tra le monete dei Paesi aderenti un regime di parità stabili e un obbligo di solidarietà tra di loro.
E’ indubbio che fu questa una stagione favorevole al processo di integrazione europea, grazie ad eventi di rilevanza storica e a leader di grande statura politica. Al crollo del muro di Berlino seguirono nel 1990 l’unificazione tedesca, la dissoluzione dell’Unione sovietica nel 1991 e la firma del Trattato di Maastricht nel 1992. In quel clima di grandi cambiamenti, ancora oggi non del tutto compresi nei loro possibili sviluppi, come in particolare lo scambio politico tra la Germania unificata che rinunciava al marco e l’Ue che sosteneva il processo di unificazione, il piano Delors sull’Unione economica e monetaria superò puntualmente le tre tappe previste, dalla convergenza economica (1990) alla lotta contro i deficit eccessivi (1994) fino al 1999, quando il 1° gennaio venne fissato irrevocabilmente il tasso di conversione delle monete in rapporto all’euro. E’ quella la sua data di nascita ufficiale, anche se monete e banconote arriveranno solo il 1° gennaio del 2002.
Così riassunta, la storia dell’euro risulta meno complessa di quanto fu in realtà, in particolare negli anni ’90, e non rende giustizia ai suoi artefici che ne accompagnarono il lungo travaglio: oltre al suo architetto Jacques Delors, Presidente della Commissione europea, il Presidente francese François Mitterrand, il Cancelliere tedesco Helmut Kohl e gli italiani Carlo Azeglio Ciampi e Romano Prodi, Presidente della Commissione europea dal 1999 al 2004.
Questa traccia sommaria relativa alla vicenda dell’euro, disegnata prevalentemente nel secolo scorso, è ricca di insegnamenti sul passato dell’Unione europea e può aiutare a capire meglio, oltre che questo confuso presente, anche alcuni indizi sul nostro possibile futuro.
L’euro ha vent’anni di vita, ma è il risultato di un’incubazione durata mezzo secolo, tante sono state le resistenze che quel progetto di fine anni ’50 ha dovuto superare: una fra tutte, il dogma, come avrebbe detto Luigi Einaudi, della sovranità nazionale, interpretata in particolare dalla Francia, ma non solo. Fin dall’inizio non sfuggì agli ‘Stati sovrani’ che la strada dell’Unione monetaria avrebbe portato inevitabilmente a una sostanziale delega di sovranità alle istituzioni comunitarie e avrebbe costituito un balzo in avanti verso un’Unione federale, invisa a molti.
Non è un caso che all’euro abbiano aderito fin dall’inizio solo undici Paesi (e la Grecia con qualche problema), ai quali se ne sono aggiunti successivamente altri otto, ultimo dei quali la Lituania nel 2015. Come non è un caso che sia rimasto fuori, tra gli altri, il Regno Unito, governato dal 1979 al 1990 da Margaret Thatcher, una Primo ministro che sapeva quello che voleva e, ancor più, quello che non voleva dell’integrazione europea.
Altro elemento di chiarezza che ci consegna la storia dell’euro è la difficoltà da sempre a saldare nell’Unione la dimensione monetaria e quella economica. Vien quasi da pensare che quella dizione, «Unione economica e monetaria», abbia preso nel tempo le sembianze di un ossimoro, tanto è andata mancando nel tempo un’equilibrata realizzazione di entrambe le ambizioni. Le fa eco un’altra dizione, rimasta incompiuta: quella del «Patto di stabilità e crescita»: di esso abbiamo conosciuto i sacrifici della stabilità e molto poco i benefici della crescita nel corso di questi lunghi anni di crisi.
La storia recente racconta di una incisiva politica monetaria ad opera della Banca centrale europea, in particolare sotto la guida di Mario Draghi, e di una latitante politica economica comune tanto auspicata quanto regolarmente rinviata a giorni migliori, come ancora nel dialogo oggi tra Francia e Germania. Al punto che non sembra eccessivo leggere nei recenti orientamenti della Banca centrale europea una forte cifra «federale», mentre si deve costatare la permanenza di quella «zoppia», denunciata da Carlo Azeglio Ciampi, di una moneta non affiancata da una politica economica comune.
Se poi si vuole correre il rischio di fare peccato sospettando, allora potrebbe non essere privo di fondamento il pensiero che la cattiva gestione nel controllo dell’uso corretto dell’euro e dei prezzi di cui si sono resi responsabili i governi nazionali possa tradire tracce residue di «nostalgie sovrane», quasi a rendere praticabili, se non addirittura auspicabili, «Piani B» di fuoruscita dall’euro per riprendersi sovranità monetaria e comodi margini di flessibilità sul valore della moneta, tornando alla pratica disinvolta delle svalutazioni, nella quale l’Italia si era spesso illustrata.
Certo non si può parlare dell’euro senza ricordare i vincoli che ne sono derivati per in Paesi che vi hanno aderito, in particolare quelli di una disciplina finanziaria per il contenimento del deficit e la riduzione del debito. I parametri di Maastricht, aggravati da quel pesante accordo intergovernativo che è il fiscal compact e dalla discutibile costituzionalizzazione per l’Italia del «pareggio di bilancio», comportano sicuramente delle rigidità eccessive, rendendo difficili politiche anticicliche in caso di crisi. E’ quanto ha cercato di interpretare al meglio la Commissione europea nel suo ruolo di «guardiana dei Trattati», in particolare nel caso dell’Italia, appesantita da un debito pubblico fuori misura.
Oggi la moneta unica resta nella percezione ampiamente maggioritaria dei cittadini una salvaguardia preziosa per la sostenibilità della nostra economia, pure in presenza di molte e giustificate critiche nei confronti di un’Unione europea, paralizzata nel suo processo decisionale e vissuta come una macchina lontana dalle esigenze dei suoi cittadini. Resta comunque una lezione importante constatare da una parte la tenacia di quanti negli anni hanno lavorato a rafforzare la coesione tra i popoli europei e la persistente tattica di contrasto ai progressi di un’integrazione europea che, come ricorda l’art. 11 della nostra Costituzione, è frutto di «limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni».
Oggi che giustizia e pace tra le Nazioni tornano a correre rischi, sotto la pressione di sovranismi identitari e populisti, anche la vicenda faticosa dell’euro manda messaggi in favore di un futuro di solidarietà e coesione, insieme con l’urgenza di riformare le istituzioni Ue e le loro politiche perché non venga affidato alla sola moneta il compito di rafforzare la coesione tra i Paesi europei. Ne devono essere coscienti soprattutto i governi nazionali che hanno logorato da anni quella trama comunitaria che dal secondo dopoguerra era stata pazientemente tessuta per consolidare la pace. E ricostruire l’Europa che oggi qualcuno rischia di nuovo di distruggere.