«Esprimo vivo dolore per l’uccisione di don Giuseppe Diana, parroco nella diocesi di Aversa, colpito da spietati assassini mentre si apprestava a celebrare la Messa. Nel deplorare questo nuovo, efferato crimine, vi invito a unirvi nella preghiera di suffragio per l’anima del generoso sacerdote, impegnato nel servizio pastorale alla sua gente. Voglia il Signore far sì che il sacrificio di questo suo ministro, evangelico chicco di grano caduto nella terra e morto, produca frutti di sincera conversione, operosa concordia, solidarietà e pace».
Venticinque anni fa, il 19 marzo 1994, cadeva sotto il fuoco spietato dei camorristi don Giuseppe Diana. Il giorno dopo, domenica 20 marzo, Giovanni Paolo II ricorda che la criminalità organizzata ha spento la voce di uno degli alfieri più intrepidi della lotta alla camorra, un prete che predicava il Vangelo e che donò la vita per il suo popolo. il 21 marzo 2014, nel 20° dell’assassinio, Papa Francesco bacia e indossa la stola che don Peppe portava. Gliela porgeva don Luigi Ciotti, fondatore del Gruppo Abele e di Libera, nella celebrazione delle vittime della croiminalit a San Gregorio VII a Roma.
Giuseppe Diana nasce il 4 luglio 1958 a Casal di Principe, provincia di Caserta e diocesi di Aversa, da una famiglia di proprietari terrieri. Nel 1968 entra in Seminario: medie, liceo, teologia, licenzia in Biblica e laurea in Filosofia. Sacerdote dal marzo 1982, dal 19 settembre 1989 è parroco di San Nicola di Bari nella natia Casal di Principe, dominio di clan camorristici potenti e sanguinari. Diventa subito l’emblema della vita e della fede, dell’impegno e della gioia.
In quegli anni l’episcopato campano, stimolato da Antonio Riboldi, vescovo di Acerra, si schiera contro la camorra che miete decine di vittime ogni anno e, il 29 giugno 1982, diffonde il documento «Per amore del mio popolo non tacerò»: indica la forza liberante del Vangelo come risposta concreta al male, non nasconde le responsabilità della comunità ecclesiale «a causa della carenza o insufficienza, anche nell’azione pastorale, di una vera educazione sociale, quasi che si possa formare un cristiano maturo senza formare l’uomo e il cittadino maturo. Non intendiamo limitarci a denunciare queste situazioni e, nell’ambito delle nostre competenze e possibilità, intendiamo contribuire al loro superamento, anche mediante una revisione e integrazione dei contenuti e metodi della pastorale».
La malavita è sempre più invadente con efferati omicidi e, a fine settembre 1987, con un assalto armato alla caserma dei Carabinieri di San Cipriano d’Aversa. La reazione della comunità civile non si fa attendere. Don Peppe organizza il convegno «Liberiamo il futuro» che si trasforma in marcia contro la violenza. Puntuale arriva l’intimidazione: colpi di pistola contro le finestre della canonica. Don Peppe rompe con l’acquiescenza del passato. Decide che la festa patronale sia celebrata solo in chiesa eliminando le manifestazioni esterne pagate dai «capobastone»: processioni, spettacoli, banda, fuochi d’artificio. Un segnale forte che sancisce la fine dei rapporti ambigui o acquiescenti. Nelle omelie alza la voce e il suo grido risuona forte e chiaro quando, nel luglio 1991, un giovane è ucciso in un conflitto a fuoco. Sollecita dal ministero dell’Interno un aumento dei controlli, particolarmente sgraditi ai camorristi. Il Consiglio comunale è sciolto per infiltrazioni mafiose.
Nel Natale 1991 sette parroci firmano il documento «Per amore del mio popolo», scritto da don Diana e distribuito in tutte le chiese. Messaggio di rara intensità e di grande attualità, coraggiosa testimonianza di impegno civile e pastorale nella lotta alla criminalità e nella costruzione della giustizia sociale, grido di dolore e di amore per la sua terra, atto d’accusa contro la violenza dei prepotenti e l’indolenza dei pavidi: «Siamo preoccupati e assistiamo impotenti al dolore di tante famiglie che vedono i loro figli finire miseramente vittime o mandanti delle organizzazioni della camorra. Come battezzati in Cristo e come pastori ci sentiamo investiti in pieno nella nostra responsabilità di essere “segno di contraddizione”. Coscienti che come Chiesa dobbiamo educare con la parola e la testimonianza di vita alla prima beatitudine del Vangelo che è la povertà, come distacco dalla ricerca del superfluo, da ogni ambiguo compromesso o ingiusto privilegio, come servizio sino al dono di sé, come esperienza generosamente vissuta di solidarietà. La camorra è una forma di terrorismo che incute paura, impone le sue leggi e tenta di diventare componente endemica nella società. Il nostro impegno profetico di denuncia non deve e non può venire meno». Constata don Peppe: «Il nostro documento ha smosso le coscienze e ha fatto alzare altre grida nel deserto che ora può diventare terra fertile».
Dopo due anni di commissariamento, nel novembre 1993 si vota per il nuovo Consiglio comunale. Con l’appello «Una religione della responsabilità» invita i cittadini a far sentire la loro voce e a partecipare alla costruzione di una città a dimensione umana; intima ai camorristi di «tenersi in disparte, non inquinare e non affossare ancora una volta questo nostro caro paese, che ha solo bisogno di risurrezione». Nel ballottaggio la lista civica «Alleanza democratica», appoggiata dai sacerdoti, ottiene la maggioranza, ma riesce a governare solo pochi mesi e poi è di nuovo crisi. La Procura di Napoli convoca i sacerdoti per avere notizie e riscontri sull’appoggio dei camorristi ai candidati nelle elezioni politiche del 1992. Don Peppe si presenta il 15 marzo 1994: all’uscita nota alcuni giovani di Casal di Principe, in odore di camorra, che con ostentazione osservano i suoi movimenti.
Quattro giorni dopo, il 19 marzo, alle 7,30, mentre si avvia a celebrare Messa, un uomo gli spara quattro colpi di pistola 7,65 e fugge in auto con due complici. Dopo il suo assassinio scatta il tentativo della «damnatio memoriae» con cui la camorra cerca di infangare il suo ricordo, ma il meschino calcolo fallisce: la limpidezza di questo testimone del Vangelo e paladino del suo popolo è sancita dall’inchiesta giudiziaria e dall’autorità ecclesiastica. La Corte d’Assise d’Appello condanna come esecutore materiale il pregiudicato Giuseppe Quadrano e sancisce: «La scelta di uccidere don Giuseppe Diana ebbe una forte carica simbolica, come segnale che avrebbe dovuto essere dirompente e risolutorio nella contrapposizione tra il gruppo De Falco-Quadrano e i Casalesi».
Parafrasando il versetto evangelico: «Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Giovanni 12,24), sulla sua tomba c’è scritto: «Dal seme che muore fiorisce una messe nuova di giustizia e di pace».