Il voto ha confermato le previsioni dei sondaggi con la vittoria della coalizione di centro-destra guidata da Giorgia Meloni: maggioranza assoluta in Parlamento, senza raggiungere il quorum dei due terzi dei seggi necessario per cambiare la Costituzione. Il centro-destra prevale, in un mare di astensioni (quasi il 40 per cento), senza compiere uno sfondamento elettorale: Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia ottengono dodici milioni di voti, appena quattrocentomila in più rispetto alle politiche del 2018. Decisiva la diaspora del centro-sinistra che si è presentato diviso in tre aree politiche ‘concorrenti’: Pd, M5S, Azione-Italia Viva, mentre nei collegi elettorali maggioritari bastava un voto in più per vincere.
Il centro-destra unito ha ottenuto il 43 per cento dei suffragi, Pd-M5S-Azione hanno raggiunto complessivamente il 49 per cento, ma tristemente separati e quindi destinati all’insuccesso. Letta ha riconosciuto il disastro e si presenterà dimissionario al congresso; Conte e Calenda sono ‘contenti’ dei loro risultati – 15 e 7 per cento -, ma il contesto generale li ‘condanna’ all’opposizione.
Il 25 settembre rappresenta comunque una data storica nella vita della Repubblica: salirà presto a Palazzo Chigi un’esponente della cultura politica post-fascista, provenendo Giorgia Meloni dal Movimento sociale italiano (Msi) di Giorgio Almirante. Il suo primato con FdI (26 per cento) è avvenuto essenzialmente a scapito degli alleati, Lega e Forza Italia; il suo primo problema sarà il rapporto con il Carroccio, dove il ruolo di Salvini è apertamente in discussione per il risultato insoddisfacente (9 per cento), per i rapporti con Mosca e per le due crisi di governo (Conte uno e Draghi) decise dal segretario. Altrettanto problematica la richiesta di ‘autonomia’ avanzata dalle Regioni del Nord, che contrasta con la tradizionale difesa del ruolo di Roma da parte di FdI.
Un nodo essenziale sarà la politica estera: la scelta atlantica della Meloni non è in discussione, ma la sua collocazione in Europa con i ‘sovranisti’ pone certamente problemi nei rapporti con Bruxelles, al punto che alcuni media hanno attribuito a Fratelli d’Italia l’intenzione di proporre Mario Draghi per prossimi incarichi a Bruxelles (o alla Nato) per attutire lo scontro Roma-Ue. È anche dirimente l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza, con il massiccio sostegno dei fondi europei ottenuti dal Governo Conte durante la pandemia e sinora gestiti dal Governo Draghi nel rispetto dei tempi concordati.
Il nuovo Governo (previsto entro ottobre) dovrà subito varare la Legge di Bilancio dello Stato 2023: e qui emergeranno altri problemi tra l’esigenza della Meloni di «non sforare» per evitare l’attacco speculativo dei fondi esteri e la volontà dei ridimensionati Salvini e Berlusconi di realizzare alcune promesse elettorali, a cominciare dal caro-bollette. Peraltro sia la Lega sia Forza Italia sono indispensabili in Parlamento per garantire la maggioranza (in Senato la coalizione ha appena 12 seggi di vantaggio).
Per la nuova leader (la Meloni sarà la prima donna premier) si porrà soprattutto una scelta tra la linea sostenuta in campagna elettorale di scontro destra-sinistra (in questo incoraggiata da un improvvido Enrico Letta che partecipò ai convegni di FdI in nome del bipolarismo) e la responsabilità del Governo di tenere unito tutto il Paese, maggioranza e opposizione. La lezione istituzionale di Mattarella permane valida, anche senza Draghi: le urne non hanno smentito il Capo dello Stato, perché il Paese ha confermato la sua fragilità politica, con molte diversità: gli astenuti primo partito italiano, nessuna coalizione con la maggioranza assoluta dei voti espressi, in Parlamento sette forze politiche sopra il tetto del 3 per cento: FdI, Pd, M5S, Lega, Forza Italia, Azione-Italia Viva, Sinistra-Verdi. Dodici milioni di voti (su 51 di elettori) hanno dato al centro-destra il diritto costituzionale di governare, in un rapporto corretto con l’opposizione. Andrebbero quindi evitate forzature sulla revisione della Costituzione (per impedire subito un clima di forte contrapposizione in Parlamento e nel Paese) o sulla revisione delle leggi sull’immigrazione, lasciando l’ungherese Orbàn al suo destino solitario nell’Unione europea.
Anche l’opposizione dovrà compiere un salto di qualità: l’ex premier Conte non potrà accontentarsi della legittima (e premiata elettoralmente) difesa del Reddito di cittadinanza, Calenda dovrà andare oltre l’elogio del premier Draghi: entrambi dovranno chiarire se puntano ad un’opposizione solitaria o se sono disposti a nuovi dialoghi nel centro-sinistra. Su questo sarà certamente determinante il congresso del Pd, che aprirà il dopo-Letta.
Il sindaco dem di Bari, De Caro, ha ricordato che dal 2008, dalla fondazione del partito a guida Veltroni, non c’è stata alcuna vittoria politica tranne le Europee del 2014. Sono cambiati molti segretari, da Franceschini a Bersani, da Renzi a Letta passando per Epifani (reggente) e Zingaretti, senza una ‘svolta’ duratura. Al momento della nascita, con la confluenza dei Ds e della Margherita, il bacino elettorale era del 35 per cento, oggi l’asticella è sotto il 20 per cento, nonostante l’annessione della sinistra di Leu (Bersani, Speranza); come ha detto D’Alema è mancata «l’amalgama» delle forze confluenti, né ha funzionato la mescolanza delle tre culture politiche di riferimento: marxista, cattolico-democratica, liberal-radicale, sostenuta dall’area Prodi.
La gestione Renzi, inizialmente brillante, si è consumata nello scontro con D’Alema: in pochi anni il giovane leader è passato dai Popolari ai Socialisti europei per finire nell’area centrista-liberale del francese Macron. In questa campagna elettorale Letta è sembrato muoversi su una linea socialdemocratica-radicale, non senza contraddizioni: ha difeso il riformismo europeo Draghi-Macron, riequilibrando a sinistra sui temi egualitari con l’alleanza rosso-verde di Fratoianni-Bonelli; ha spostato il baricentro del partito sui delicati temi etici, accordandosi con la posizione radicale di Emma Bonino, pur ricordando la sua provenienza dai Popolari; ha insistito su una concezione bipolare della politica, come ai tempi dei governi Prodi, pur facendo parte di una coalizione di unità nazionale, secondo le indicazioni di Mattarella.
Il prossimo congresso del primo partito di opposizione dovrà necessariamente ripartire dalla questione dell’identità, prima ancora dei nomi del possibile segretario (gli emiliani Bonaccini, socialdemocratico, Schlein, ecologista, Del Rio, catto-dem, i sindaci di Bari, Pesaro, Firenze, Bergamo…). Contestualmente una forza politica del 20 per cento dovrebbe prendere atto dei limiti della radicalizzazione destra-sinistra e riaprirsi al tema delle alleanze, senza pretese egemoniche.
Il voto del 25 settembre ha cambiato gli scenari, dentro e fuori l’area di governo. Permane la garanzia istituzionale del Presidente Mattarella, custode sicuro dei valori repubblicani.