«Pensavo di aver visto abbastanza in dieci anni che sono qui e invece l’attacco di venerdì scorso è stato qualcosa di choccante, di inimmaginabile per la violenza e l’efferatezza». Così dalla capitale della Repubblica Centrafricana, Bangui, il carmelitano di Casale Monferrato, padre Federico Trinchero, commenta l’attacco al Vescovado nella città di Alindao nel sud del Paese nel quale sono stati uccisi 48 cristiani, tra cui il vicario generale Blaise Mada e don Celestine Ngoumbango, parroco di Mingala.

La cattedrale è stata data alle fiamme poi è stata saccheggiata la casa episcopale e hanno bruciato il presbiterio e il centro della Caritas. Strutture delle quali ora rimangono solo i muri e che erano parte di un centro d’accoglienza profughi. Nel Paese lacerato da una guerra civile scoppiata a fine 2012, che ha visto contrapporsi le forze governative e le forze ribelli Seleka, e che ha avuto le sue fasi più acute tra il 2013 e il 2014, dopo la visita del Papa nel 2015 e l’elezione del Presidente – oggi Faustin-Archange Touadéra (eletto nel 2016, dopo la visita di Francesco) – la situazione sembrava stabilizzata, ma nel 2018 sono ripresi episodi di grave violenza.
«La coalizione della Seleka (il nome stesso significa coalizione) si è sciolta», prosegue padre Trinchero, «e oggi ci sono gruppi disgregati di ribelli che agiscono, non tanto nella capitale che è ancora tranquilla e dove si può circolare, ma in altre zone dove invece è tutto molto precario, oggi si passa, domani no, e c’è una situazione di insicurezza e paura diffusa. La gente non ne può più e noi missionari cerchiamo di dare speranza, ma è difficile e personalmente dopo questo episodio sono davvero sconfortato. Non mi attendo una degenerazione della violenza come nel 2013-2014, ma questi attacchi iniziano ad essere troppo frequenti e devastanti. Prima si andava avanti sperando che la guerra finisse ora si vive con la guerra e si cerca di andare avanti…».
L’attacco ad Alindao è stato attribuito alla fazione Upc (Unité pour la paix en Centrafrique) dei ribelli filoislamici che hanno agito sotto gli occhi dei militari dell’Onu e proprio su questo aspetto si è espresso monsignor Juan Josè Aguirre Munos, Vescovo di Bangassou, diocesi nel sud-est del Paese. Il Vescovo ha in particolare richiamato l’attenzione su «Paesi stranieri e non africani che vogliono usare il Centrafrica per entrare nella Repubblica democratica del Congo e nel resto del continente, manipolando l’islam radicale»; la Conferenza episcopale centrafricana, in una nota, ha sottolineato che la Chiesa cattolica «è diventata il bersaglio dei gruppi armati in Centrafrica» e i Vescovi locali hanno chiesto al governo e alla missione Onu nel Paese (Minusca) di «coordinare le loro azioni perché gli autori di questi omicidi e i loro mandanti siano arrestati e condotti di fronte alla giustizia».
«Quello dell’Onu», precisa padre Trinchero, «è un problema evidente: ci sono regole di ingaggio che prevedono per molti contingenti l’impossibilità di intervento se non sotto attacco, ma allora ci si chiede che ruolo possano avere. Tuttavia non vedo altre soluzioni perché purtroppo la popolazione del Centrafrica non è in grado di rimettersi in piedi da sola, non c’è uno spirito tale da sostenere una condizione di stabilità pacifica. C’è un grosso problema di inerzia, uno scarso amore per la patria e questi avvenimenti scoraggiano ancora di più». La strage sarebbe stata perpetrata per «replicare all’uccisione di un musulmano» il mercoledì precedente da parte dei miliziani rivali anti-balaka.
Cristiani uccisi da musulmani, è una questione religiosa? «No», spiega ancora padre Trinchero «in questi scontri non c’è l’elemento etnico come accadeva in Rwanda, e non è la religione il movente, ma certamente è l’ambizione del potere che si insinua, avvelena la coesione e divide. Anche il cardinale Dieudonné Nzapalainga, Vescovo di Bangui, insiste che non è una guerra di religione e penso, dopo le immagini che ho visto di quanto è successo, che ci sia un elemento nuovo, oscuro, qualcosa di molto brutto che anche chi come me vive qui da anni avverte, ma non comprende. Un altro aspetto che fa pensare è che ad Alindao il centro era la zona sicura, i preti erano tutti lì dove è avvenuto il massacro come se nella diocesi di Torino tutti fossero concentrati in città e nessuno nelle periferie o nelle valli… ora la gente è fuggita nella savana, dispersa disorientata. Come lo stesso Vescovo di Alindao, il giovane monsignor Cyr-Nestor Yapaupa che ha voluto restare».
A lui i Vescovi del Paese hanno scritto nel loro messaggio di condoglianze alla comunità l’auspicio «che la comunità cristiana resti calma e in preghiera senza cadere nella spirale della vendetta». Una guerra di potere dunque, orchestrata dall’esterno, «i ribelli non parlano neanche Sango che è la lingua locale», conclude padre Trinchero, «sono finanziati da altri paesi che hanno forti interessi economici. Puntano alle ricchezze del Paese mentre la gente vive in condizioni di povertà drammatica, c’è stata una regressione vergognosa. Il Paese è lasciato a se stesso, tanto che pare che l’80% sia oggi in mano ai ribelli».
Una popolazione abbandonata dallo Stato ma non dimenticata da Papa Francesco che domenica nell’Angelus ha richiamato il massacro di Alindao. «Con dolore ho appreso la notizia della strage compiuta due giorni fa in un campo di sfollati nella Repubblica Centrafricana, in cui sono stati uccisi anche due sacerdoti. A questo popolo a me tanto caro, dove ho aperto la prima Porta Santa dell’Anno della Misericordia esprimo tutta la mia vicinanza e il mio amore. Preghiamo per i morti e i feriti e perché cessi ogni violenza in quell’amato Paese che ha tanto bisogno di pace».