«Il nostro obiettivo è impedire che sull’immigrazione l’Italia continui a farsi fare la selezione dagli scafisti, consentendo gli ingressi solo attraverso il decreto flussi. Se non volete che si parli di blocco navale, lo dirò così: dobbiamo recuperare la proposta originaria della ‘Missione navale Sophia’ dell’Unione Europea che nella terza fase prevista, anche se mai attuata, prevedeva il blocco delle partenze dei barconi dal Nord Africa». Con queste parole la neo presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha esordito, sul complesso e delicato tema dell’immigrazione, in occasione della fiducia alla Camera.
La premier chiede oggi di riattivare quella stessa missione bloccata nel 2019 dal suo attuale vice-premier Matteo Salvini, quando come ministro dell’Interno del primo Governo Conte chiuse i porti anche alle unità militari dell’Unione (riteneva infatti che la presenza di navi militari in pattugliamento fosse un fattore di attrazione per le partenze dei clandestini). Mentre ha fatto discutere negli ultimi giorni, tra i banchi dell’opposizione e le associazioni umanitarie, la direttiva inviata dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi alle Capitanerie di porto relativamente alla valutazione del divieto di ingresso nei porti italiani ad Ocean Viking e Humanity One, due navi umanitarie battenti bandiera rispettivamente norvegese e tedesca in rotta verso le nostre coste con centinaia di migranti soccorsi in mare tra la Libia e Malta. Nel frattempo, nella prima riunione del Comitato per l’ordine e la sicurezza si è tornato a parlare di «emergenza»: «dall’inizio del 2022 al 26 ottobre scorso ci sono stati 2.044 sbarchi che hanno portato in Italia 79.647 migranti, il 50 per cento in più rispetto allo stesso periodo del 2021».
Ma quali erano le caratteristiche di questa missione navale che oggi si pensa di riesumare? Nata nel 2015, ed ufficialmente denominata Eunavfor (Forza navale dell’Unione europea nel Mediterraneo centrale), essa era un’iniziativa sovranazionale in risposta ai drammatici naufragi avvenuti nel braccio di mare tra la Libia e l’Italia che culminarono, proprio nella primavera di sette anni fa, nel ribaltamento e affondamento nel Canale di Sicilia di un peschereccio con 800 persone a bordo (stima Onu), nella notte tra il 18 e il 19 aprile, uno dei più gravi naufragi nel Mediterraneo.
L’operazione ribattezzata «Sophia» (dal nome della bambina venuta al mondo proprio a bordo di una delle prime navi impiegate per il salvataggio) prevedeva tre fasi distinte. Vi era innanzi tutto uno stadio ricognitivo per mettere a fuoco le attività illecite svolte dagli scafisti ed indagare sulle modalità con cui si svolge il traffico di persone. Secondo punto, l’avvio della sorveglianza sul mare, con la ricerca delle navi sospette e la loro intercettazione. Terzo, ed ultimo aspetto, quello del blocco e affondamento delle navi degli scafisti nei luoghi di partenza, cioè nei porti della costa libica, per bloccare i trafficanti alla partenza e consegnarli alla giustizia. Notevole il dispiegamento di mezzi che comprendeva unità navali appartenenti a molteplici Paesi dell’Unione europea.
L’Italia inizialmente vi destinò la portaerei Cavour, sostituita poi dall’incrociatore Garibaldi, per concludere infine con la San Giusto, una delle tre unità anfibie della Marina militare, che cumulava anche compiti di coordinamento della missione. In appoggio alle operazioni sul mare si accompagnava il supporto aereo garantito dalla base militare di Sigonella, nei pressi di Siracusa. In quattro anni di attività Sophia ha consentito l’arresto di circa 140 trafficanti. Il soccorso in mare ha permesso di salvare la vita di 45mila persone.
La missione nella cosiddetta ‘terza fase’ non è mai stata avviata. Per poterla attuare sarebbero state indispensabili due condizioni preliminari che non si sono poi verificate: un mandato dell’Onu su basi sovranazionali e l’autorizzazione della Libia per consentire l’affondamento delle imbarcazioni nei suoi porti. Dalle Nazioni Unite, però, non è mai giunto il semaforo verde e, per di più, nel territorio libico è sempre mancato un interlocutore affidabile con cui trattare. Neanche quando, con l’elezione di Fayez Al-Sarraj, pareva essersi insediato un legittimo Presidente. Figuriamoci oggi con il Paese spaccato in due.
Non va infatti dimenticato che la Libia, in seguito alla guerra civile scoppiata dopo la caduta del quarantennale regime di Gheddafi, ha visto spezzarsi la propria unità nazionale. Ne è derivata una frammentazione di poteri, tra Tripolitania, Cirenaica e Fezzan in lotta tra loro per il controllo sull’intero Paese. Ed è anche in conseguenza del collasso delle strutture istituzionali che dalle sponde libiche ha preso il via un incontrollato flusso migratorio, nel quale si è inserita la criminalità: un traffico di essere umani, pronto a sfruttare la disperazione di uomini e donne in fuga dalle guerre e dalla fame.
In questo quadro di generale anarchia è stato impossibile stabilire delle regole certe. Finito in un punto morto anche l’addestramento della Guardia costiera, uno dei compiti successivamente assegnati alla missione Sophia. Negli anni si sono verificati parecchi episodi di contiguità tra i guardiacoste e i trafficanti. L’Ong tedesca Sea Watch anche di recente ha raccolto le prove di questa collusione: anziché procedere al sequestro, le guardie libiche restituirebbero le imbarcazioni alle organizzazioni criminali, in violazione degli accordi presi con le autorità italiane ed europee.
«Quello esistente in Libia», ha detto Riccardo Noury, portavoce di Amnesty internationale, in una recente intervista, «è un sistema criminale, poiché ci sono ben 30mila persone detenute in campi disumani o nelle prigioni. Persone che si erano illuse di avere davanti l’ultimo ostacolo prima di raggiungere la loro meta e si sono invece ritrovate nella più completa illegalità». La Libia non ha neppure aderito alla Convenzione di Ginevra che stabilisce i diritti delle persone migranti e un loro ritorno sul territorio libico significa soltanto essere sottoposte a trattamenti disumani.
Se la Meloni propone il ripristino dell’operazione Sophia in un contesto di collaborazione europea, Salvini sembra muoversi in maniera autonoma puntando il dito sulle navi delle Ong che operano nel Mediterraneo. Il neo ministro delle Infrastrutture, incarico nel quale punta a mantenere la competenza sulle Capitanerie di porto (che potrebbe invece passare al neonato ministero delle Politiche del mare, affidato all’ex presidente della regione Sicilia, Nello Musumeci), ha dettato la propria linea: «Messaggio per i trafficanti di esseri umani e complici: l’Italia non tollererà più il business dell’immigrazione clandestina e degli sbarchi fuori controllo. Le Ong straniere si regolino di conseguenza».
Dall’Agezia Onu per i rifugiati, Chiara Cardoletti, rappresentante italiana Unchr, in una recente intervista ha detto che «serve il coinvolgimento dell’Europa. L’Italia per anni è stata il principale porto sicuro del Mediterraneo, ma non può essere lasciata sola. I Paesi dell’Ue devono trovare insieme un accordo sul luogo in cui le persone soccorse in mare possono sbarcare in sicurezza e poi entrare in un sistema prevedibile di distribuzione a livello europeo. Le persone che sono soccorse via mare devono poter sbarcare tempestivamente e chiedere asilo in base alla legge nazionale, al diritto europeo e internazionale».
Per evitare che i migranti finiscano nella rete dei trafficanti è indispensabile un canale di ingresso regolare per le persone in fuga, promuovendo ingressi sicuri e specifici corridoi umanitari. Su scala europea andrebbe modificato il trattato di Dublino, che lascia al Paese di primo sbarco l’onere di gestire l’arrivo delle persone migranti, prevedendo un sistema di redistribuzione sull’intero territorio dell’Unione. Sinora qualsiasi tentativo in tal senso è però fallito a causa dell’opposizione del gruppo di Visegrad. Forse la Meloni si accorgerà presto che l’ungherese Viktor Orban è parte del problema e non della soluzione.