Suor Maria Petra Urietti, madre generale dell’Istituto Suore di San Giuseppe (la Casa generalizia è in via Giolitti 29 a Torino) è tornata da qualche settimana dalla Repubblica Centrafricana dove le sue consorelle sono presenti dal 1994. Ha scritto per la «Voce e il Tempo» un diario di viaggio da un Paese da decenni insanguinato da conflitti e colpi di stato dove le suore, oltre alla collaborazione con le diocesi, hanno fondato scuole e opere educative per sostenere la popolazione più fragile. (m.lom.)

Era là all’angolo di un incrocio importante. Era buffo. Era paradossale. Faceva sorridere e piangere al tempo stesso. Faceva per certi versi arrabbiare e per altri ammutolire e pensare. Era vecchio: cotto dal sole e con un bello strato di polvere addosso. Presentava segni di «ferite» di vario tipo, di auto o moto che gli erano passate troppo, troppo, vicine, ma non solo. Di certo, in tempi diversi, gli avevano sparato più volte, ma non erano riusciti ad abbatterlo.
Quel cartello con la scritta sbiadita, ma ancora ben leggibile, stava là, poco distante dalla Cattedrale, dove il traffico (civile e militare) si raggrumava e disperdeva in mille rigagnoli colorati, frastornanti e assurdi, ogni giorno, ogni ora. La scritta osava dire: «Il fumo uccide. Smetti di fumare». Bangui, capitale della Repubblica Centrafricana (Rca), vive da anni (decenni?) tra colpi di Stato riusciti e non riusciti, vive farcita di militari locali e venuti da lontano, anche da molto lontano: Burundi, Nigeria, Indonesia, Francia, Russia. In questo periodo, soprattutto soldati russi: uomini alti, grandi come armadi, occhi azzurri, pelle bianca che si fa rossa al sole, capelli chiari come i pagliai che dipingeva Van Gogh… La Repubblica Centrafricana ha un Presidente eletto ufficialmente: ma da chi? Le ultime elezioni, pochi mesi fa, si sono svolte in un contesto di paura e violenza e certamente non tutto il Paese ha votato.
Le nostre sorelle raccontano delle notti di sparatorie passate in casa tremando: a volte chiuse negli armadi o nascoste sotto i letti. Poi a un certo punto il silenzio ritorna e tu provi a «uscire» dal nascondiglio in cui ti aveva gettato lo scontro tra esercito regolare e i «ribelli» e ti chiedi se potrai andare al lavoro quel giorno, a scuola, al dispensario, in ufficio, al campo, al mercato… Ti chiedi se ha senso mettere la mascherina per proteggersi dal virus che fa paura al mondo, se devi proprio continuare a cercare di lavarti bene le mani per impedire di infettarti e se lo devi insegnare ai bambini e ricordarlo agli adulti tutte le volte che puoi… E ti chiedi se non sarebbe meglio avere in dotazione un giubbotto antiproiettile invece che uno straccetto di 20 cm. davanti alla bocca e al naso… Soprattutto ti chiedi come si possa far tanta pubblicità per i test del Covid e del vaccino quando non si dice nulla contro armi e gente pagata per sparare e uccidere: presenze che tolgono il fiato più del Coronavirus e che succhiano gran parte delle ricchezze di nazioni «in via di sviluppo». Ti chiedi: «Quale via? Quale sviluppo?».

Era ormai da oltre due anni che non visitavo le nostre comunità in Rca e ho trovato, soprattutto nelle città, segni evidenti di regresso mischiati a segni (spesso briciole) di vita sempre nuova e fresca. Non si può non pensar con gioia e fiducia ai bambini, soprattutto al gruppo di Pigmei di Pissa, che con tenacia ogni mattina si armano di penna e quaderno e affrontano la battaglia contro l’analfabetismo e l’ignoranza, per poter un giorno alzare la testa e guardare negli occhi chi pone loro domande in francese e rispondere correttamente: il gruppo che vive lì alla Missione con le nostre sorelle è simpaticissimo e sta crescendo in numero e allegria!
Non si può non pensare con simpatia e commozione ai poveri e ammalati che vengono a far colazione e anche pranzo nella comunità di Mbaiki e poi si fermano per dare una mano alle Suore in piccoli lavori e soprattutto portano risate e danze nel cortile di casa. Non si può non pensare con ammirazione e riconoscenza alle sorelle che nella capitale Bangui si alzano alle 4 per poter pregare e poi partono alle 5.30 per andare ai rispettivi impegni sparsi nella città e, tornano, verso le 15, a casa ben stanche: finalmente un boccone di pranzo e poi in fretta a far qualche lavoro in casa prima che l’oscurità avvolga tutto e, non essendoci da varie settimane la corrente elettrica, cantare, unite alla Chiesa universale e per tutta l’umanità, la preghiera dei Vespri a lume di candela.

Non si può non pensare ai miracoli di san Giuseppe che ho toccato con mano anche in questo viaggio, nell’anno che il Papa ha voluto intitolare al padre terreno di Gesù: tante piccole e grandi cose andate «dritte», quando avrebbero avuto tutta la probabilità di andare «molto storte». Ne condivido un paio.
A Mbaiki la sorella più giovane ha rischiato di morire bruciata: il fuoco, all’aperto, su cui cuoceva una pentola di legumi, le ha lambito un angolo del vestito e in un secondo l’abbiamo vista rivestirsi di fiamme. San Giuseppe ci ha aiutate a strapparle i brandelli di abito di dosso e ad impedire il peggio. Le gambe, soprattutto i polpacci, su cui si è incollata la sottoveste, avranno bisogno di tempo per guarire… Ma guarirà e potrà ancora camminare!
Un altro episodio in cui ho percepito san Giuseppe molto vicino è stato nel viaggio di rientro da Bangui a Parigi: per motivi vari arrivata tardi all’aeroporto Charles De Gaulle, cercavo il modo di cambiare il biglietto di rientro su Milano del giorno seguente. Gli uffici erano ormai chiusi e mi chiedevo cosa avrei potuto fare per trovare un posto su un volo al mattino verso l’Italia dal momento che, arrivata a Torino, dovevo ripartire per Susa per l’incontro dei Consigli della Federazione del nostro Istituto. In un aeroporto ormai deserto vedo un signore seduto all’ingresso della zona «imbarchi».
Mi avvicino e, prima ancora che gli dica qualcosa, mi rivolge un sorriso e una domanda: «Posso fare qualcosa per lei?». E gli rivolgo io una domanda: «Lei è un esperto in miracoli?». Mi risponde: «Un poco». Gli spiego la mia situazione e chiedo anche se può indicarmi dove potrei passare la notte senza essere buttata fuori visto che alle 24 chiudono tutto. «Vediamo», mi dice. Smanetta sul pc e mi presenta una carta d’imbarco per l’aereo Parigi-Milano Linate delle 7.20 del giorno dopo e, dal momento che erano le 21 passate, mi dice: «Ma lei ha mangiato?».
Stupita al quadrato (per la carta d’imbarco e la domanda) gli rispondo che ho preso qualcosa al mattino, ma che troverò una macchinetta e che non fa problema passare un giorno senza cena. Lui si premura di indicarmi la zona dove posso sedermi e mi dice di aspettarlo: dopo mezz’ora arriva con un sacchetto con la cena scusandosi per il ritardo, ma è dovuto uscire dall’aeroporto per andare al bar di fronte, perché era già tutto chiuso. Era un bel signore, giovane, con una barba nera ben curata: i suoi nonni erano italiani e, per cercare lavoro, dalla Puglia erano andati in Francia e lì si erano fermati. Dopo essere stato con me a chiacchierare fino verso le 23 mi dice: «L’unica cosa che conta in questa vita è volersi bene e cercare di aiutarsi». Mi lascia con un sorriso che ricorda la terra solare dei suoi antenati: fuori la pioggia cade abbondante, ma il freddo che sentivo nelle ossa è sparito.